Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false, fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

Questo è uno dei moniti di Gandhi comunemente noto con l’appellativo onorifico di “Mahatma” datogli nel 1915 dal poeta indiano Rabindranath Tagore (premio Nobel per la letteratura), che letteralmente significa “grande anima” ma più propriamente vuol dire “venerabile”. Il mondo lo ricorda nel 150° anniversario della nascita (2 ottobre 1869) come l’apostolo della nonviolenza e la vittima del fanatismo religioso.

Gandhi sbarcò sul suolo di Durban (Sud Africa) quale avvocato e protettore di 2000 indiani in cerca di lavoro nel Paese africano. Scese dalla nave e affrontò la folla ostile che lo aggredì. La polizia gli chiese di denunciare gli aggressori, ma Gandhi, coerente coi principi della nonviolenza, si rifiutò. Questo fu il primo atto della lotta che Gandhi condusse nel Sud Africa per abolire la segregazione razziale anti indiana. Una lotta che si protrarrà per quasi vent’anni, costellata di incidenti con le autorità, arresti, pestaggi. Il 1° settembre 1906 in un comizio a Johannesburg Gandhi lancia una Campagna antirazzista. La parola d’ordine è: opporsi alla segregazione rifiutando di obbedire alle ingiuste leggi discriminatorie. Il 10 gennaio 1908, Gandhi è condannato a due mesi di carcere per propaganda sediziosa. Il 15 ottobre 1908, nuova condanna a due mesi di carcere. 28 ottobre – 6 novembre 1913, sotto la guida di Gandhi, 2.400 immigrati indiani del Natal entrano nel Transvaal, disobbedendo alla legge che impone il passaporto anche per l’immigrazione interna. Gandhi è condannato a 9 mesi di carcere. 30 giugno 1914, Gandhi firma con Smuts (Ministro della Difesa dell’Unione Sudafricana, dal 1909 costituita in Federazione autonoma nell’ambito del Commonwealth), l’accordo che revoca buona parte della legislazione segregazionista.

 

LE RADICI DELLA NONVIOLENZA

L’accordo Gandhi-Smuts rappresenta l’episodio conclusivo della lotta di Gandhi nel Sudafrica. La lunga battaglia per i diritti civili degli immigrati indiani è il primo esempio di applicazione della dottrina battezzata dagli occidentali “nonviolenza” e nota agli indiani come ahimsa, cioè rifiuto della violenza come metodo di azione politica.

Gandhi emerse come il leader dell’intera comunità indiana. Fondò il “Congresso indiano” del Natal, ispirandosi al Partito del Congresso (che in India è destinato a guidare il Movimento nazionale fino all’indipendenza, anche successivamente), ma soprattutto elabora il metodo di lotta che lo accompagnerà per tutta la vita: il “satyagraha”, la “fermezza nella verità”.

Non si tratta solo di disobbedire agli ordini delle autorità quando siano immorali: bisogna anche preavvertire le autorità stesse di quanto i militanti del “satyagraha” stanno per compiere, cioè trasgredire la legge. Infine dichiararsi colpevoli di fronte ai tribunali e innocenti di fronte alla coscienza e pronti a subire le eventuali conseguenze legali, come il carcere.

Il segreto del “Mahatma” era questo: egli non considerava nessuno suo avversario, nel senso comune del termine. Non voleva vincere gli uomini, voleva convincerli, inglesi e indiani. Se ne accorsero presto i dirigenti del Partito del Congresso quando, al suo ritorno in India nel 1915, Gandhi mise in moto un meccanismo di comunicazione con le masse dei contadini e dei diseredati che nessun uomo politico indiano, prima o dopo di lui, ha mai saputo attivare. Ci voleva un uomo che vivesse in mezzo ai contadini, conoscesse e seguisse i loro costumi, mangiasse il loro povero cibo, vestisse come loro (con il “dhoti”, un semplice panno bianco intorno alle reni): chi, se non Gandhi? Per lui l’autogoverno dell’India dipendeva anzitutto dall’autocontrollo, cioè dalla maturità, saggezza e dominio di sé che gli indiani dovevano dimostrare nella lotta per l’indipendenza come nella vita quotidiana.

Fu proprio questa, in realtà, la grande delusione del “Mahatma”: il constatare, con il trascorrere del tempo, che le masse indiane lo seguivano fedelmente sulla via della lotta politica, ma non su quella dell’evoluzione morale, cioè non riuscivano a vivere, salvo eccezioni, la nonviolenza come fine ultimo della vita. Con le conseguenze che tutti conosciamo: la progressiva irreparabile divisione fra indù e musulmani, fino a quella che Gandhi definì la “fine ingloriosa” di tanti anni di lotta, cioè il dramma della separazione fra India e Pakistan, il 14 agosto 1947.

L’INDIA DI GANDHI

Se, a partire dal 1920, era già lui il vero leader del Partito del Congresso, in grado di lanciare grandi campagne di disobbedienza civile in tutto il Paese, non gli mancarono aspre contestazioni da parte dello stesso Pandit Nehru (che lo amava più di quanto non condividesse le sue idee politiche). Infatti, l’India che sognava Gandhi non era la stessa di Nerhu o di altri. Quello a cui Gandhi aspirava era il ritorno ad un passato idealizzato: la comunità di villaggio indiana, liberata da qualcuna delle sue caratteristiche più degradanti e repressive, quali l’intoccabilità. Era ai contadini che andavano veramente le simpatie di Gandhi, e furono i contadini coloro che risposero con maggiore entusiasmo alla sua predicazione. Mantenere l’India immutata dei villaggi – come ha scritto lo storico Barrington Moor jr. – significava condannare la massa degli indiani ad una vita di squallore, ignoranza e malattie. L’industrialismo, a suo avviso, portava con sé unicamente materialismo e violenza. Ai suoi occhi gli inglesi erano le vittime della moderna civiltà, e come tali meritevoli più di pietà che di odio.

Nerhu voleva invece un Paese moderno, tecnologicamente avanzato, e pose le basi per il costante miglioramento dell’economia indiana. Tuttavia, l’ipotesi di Gandhi non era un’utopia, si rifaceva semplicemente ad un altro modello di civiltà, più semplice, più meditativa, meno ricca, più attenta alla natura e all’uomo. Un modello di società che non manca oggi di suscitare interesse in Movimenti occidentali vicini al pacifismo e all’ecologismo.

Al di là di queste radicate convinzioni, quali erano i tratti essenziali dell’indianità di Gandhi? Per capire il “Mahatma” non dobbiamo rifarci a lui come ad un nazionalista che, per liberarsi dal giogo inglese, scelse la nonviolenza ritenendola il metodo più efficace per il suo popolo. Per capirlo, dobbiamo seguire un ordine inverso di priorità: Gandhi, impregnato di una cultura essenzialmente religiosa e di una forte personalità morale, volendo emancipare il proprio popolo scelse lo strumento più naturale che gli veniva dalla tradizione, cioè la nonviolenza, e lo trasformò anche in un’arma contro gli inglesi.

La battaglia di Gandhi fu sempre prima morale e poi politica. Egli non era un nazionalista che usava la nonviolenza, ma un nonviolento che lottò per l’elevazione morale, spirituale e sociale del popolo, elevazione che, in quel dato periodo storico, non poteva non passare attraverso la lotta per l’indipendenza politica degli indiani dal dominio della Corona britannica. L’insegnamento gandhiano di nonviolenza e pacifismo pur avendo un valore universale, affonda le proprie radici nell’ “humus” della cultura indiana, le cui diverse espressioni (induismo, buddhismo, jainismo) contemplano le virtù cardinali del “non recar danno od offesa” e la compassione per tutte le creature viventi.

Gandhi non volle mai che l’utilità dell’azione politica prevalesse sulla sua moralità, perché nell’azione politica “satyagraha” (che fosse uno sciopero, una manifestazione o altro) si manifestava lo spirito della Verità, e in ultima analisi di Dio. Insomma, un’azione violenta agli occhi di Gandhi sarebbe stata un’autentica bestemmia.

Gli uomini del Congresso non sempre furono d’accordo con lui e ciò spiega l’isolamento di Gandhi dal Partito sul finire degli anni ’30, non certamente dalle masse. E gli inglesi, con qualche eccezione (come quella, significativa, di lord Mountbatten, ultimo viceré dell’India, che aveva detto: “Il Mahatma passerà alla storia alla pari di Buddha e di Gesù”) non capirono fino all’ultimo il valore del loro formidabile avversario, sintesi davvero unica di antico (la visione tradizionale della società, i valori religiosi) e moderno (l’abilità politica, la cultura giuridica anglosassone).

L’uomo Gandhi dimostrò invece di essere il portatore di un’ideologia nella quale pensiero e azione si coniugavano nel miglior modo, portatore di valori che, a tutt’oggi, rimangono di piena attualità per l’uomo.

A Gandhi il regista inglese Richard Attenborough dedicò uno splendido film, interpretato dall’attore Ben Kingsley (che ottenne il premio Oscar) presentandolo come supremo difensore dei diritti civili e dell’India oppressa dal colonialismo britannico.

L’indipendenza dell’India non fu l’unica meta dell’azione di Gandhi. Due altri gravissimi problemi travagliarono il popolo indiano: il problema degli intoccabili e quello dei musulmani. Il primo aveva radici che si confondevano con le radici stesse dell’induismo. La religione induista insegna infatti che gli uomini sono divisi in quattro caste cioè in gruppi differenti per natura e per mansioni diverse nell’ambito della società: sacerdoti, guerrieri, artigiani, servitori. Gli appartenenti alle varie caste vivono totalmente separati fra di loro.

Esistono poi tutti coloro che non fanno parte di nessuna casta, o sono stati radiati dalla loro, o sono stranieri. A tutti costoro, chiamati intoccabili, è assolutamente vietato qualunque tipo di rapporto con gli appartenenti alle quattro caste. Gandhi, non contrario alla suddivisione castale, anzi, la trovava logica secondo la morale induista, non ammetteva però che potessero esistere degli intoccabili. E, quando la tensione della lotta politica antinglese si allentava, si batteva vivacemente perché questi esclusi, da lui definiti harijan (figli di Dio), venissero considerati come membri di una vera e propria casta. Lo scopo di questa azione era anche politico perché il Mahatma sapeva che soltanto se tutti gli indiani fossero stati uniti e concordi avrebbero potuto ottenere la tanto sospirata indipendenza.

Per questa stessa ragione Gandhi compì tutti i possibili sforzi per risolvere anche l’altro e più scottante problema dell’India: la discriminazione religiosa. Egli sperava di ottenere, con il solo impegno morale, che indù e musulmani, le due grandi compagini religiose che formavano la popolazione del sub continente indiano, potessero convivere pacificamente.

Gandhi sentiva infatti che, una volta ottenuta l’indipendenza, il problema religioso sarebbe esploso con drammatiche conseguenze. E aveva ragione. Il 15 agosto 1947, dopo 28 anni di lotta, l’Inghilterra era costretta a cedere. Ma l’India indipendente nasceva lacerata e mutilata. Due Stati sorgevano dalle ceneri dell’Impero indiano: l’Unione Indiana, di religione indù e il Pakistan di religione musulmana. Così, nel momento stesso in cui raggiungeva il traguardo della sua vita – l’indipendenza per la sua terra – Gandhi vedeva fallire il suo sogno di fratellanza delle popolazioni indiane. Il Mahatma pagava la recrudescenza dell’odio che avrebbe per sempre contrapposto indù e musulmani. Infatti per mano di un fanatico indù, morì raggiunto da tre colpi di pistola, il 30 gennaio 1948. Da allora terribili conflitti sconvolgeranno India e Pakistan. I morti si conteranno a centinaia di migliaia. Si concluderà così nel sangue la vita dell’«apostolo della nonviolenza».

Bruno Segre

Bruno Segre

Avvocato e giornalista. Fondatore nel 1949 de L'Incontro

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