Durante la trasmissione Mezz’ora in più, condotta da Lucia Annunziata, il procuratore della Repubblica Nicola Gratteri ha parlato del lavoro in carcere. O meglio, di campi di lavoro per i detenuti come terapia e rieducazione, ma soprattutto gratuiti. La stessa Annunziata ha fatto notare che la storia del lavoro come terapia somiglia molto da vicino a “il lavoro rende liberi”, un chiaro riferimento al motto posto all’ingresso del Lager nazista di Auschwitz.

L’associazione Antigone è intervenuta, con una nota, stigmatizzando tale proposta ricordando che il lavoro gratuito non è nient’altro che lavoro coatto. L’associazione ha ricordato le Regole Penitenziarie Europee che contemplano l’importanza del lavoro come strumenti di riabilitazione, ma che «deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti». Antigone ricorda anche che lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: «A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato» . Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. «Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi e soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori – direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti – che da decenni si impegnano per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione».

Il procuratore Gratteri, sempre a proposito del sistema penitenziario, ha anche detto che il carcere di Bollate, la casa di reclusione aperta nel 2000 nell’hinterland milanese, è un mero spot. Una affermazione che ha provocato il duro intervento della Camera penale di Milano. «Tale definizione – scrivono in una nota i penalisti – è del tutto inaccettabile. Il carcere di Bollate ha un tasso di recidiva del 17% rispetto alla media nazionale che è di circa il 70%. Si tratta quindi di una realtà positiva che non può e non deve essere banalizzata». E lo testimonia, secondo la Camera penale, il fatto «che su un totale di 1300 detenuti, oltre 200 contribuiscono al loro mantenimento svolgendo un’attività lavorativa retribuita» che per altro «consente a molti di loro anche di risarcire le vittime». A ciò si aggiungono i 40 detenuti in regime di semilibertà e i 350 che godono di permessi premio. «Il carcere di Bollate tende pertanto in modo concreto alla rieducazione dei condannati prosegue la nota – e questo nel rispetto delle norme previste dall’Ordinamento penitenziario. È la cooperazione tra tutte le figure professionali coinvolte, istituzionali e non, che ha reso possibile tutto ciò». E in più «non è secondario che gli avvocati collaborino con gli operatori alla costruzione di percorsi di reinserimento», quindi «Il carcere di Bollate costituisce pertanto un modello da condividere e replicare su tutto il territorio nazionale – concludono i penalisti -. Gli “spot” in materia giudiziaria sono altri e tra questi, certamente, non rientra il carcere di Bollate».

Anche Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere di Bollate, ha dichiarato: «Ci sono cose che non si vorrebbero mai sentire soprattutto quando arrivano da importanti esponenti della magistratura. Bollate non è uno spot chiosa la direttrice – e questo non lo dico io ma l’impegno che tutti i giorni ci mettono poliziotti penitenziari, funzionari giuridico pedagogici, operatori sociali, volontari, il terzo settore, imprenditori, istituzioni e la stessa magistratura per fare in modo che la legge venga applicata secondo lo spirito della Costituzione. Non si può, in modo a dir poco superficiale, definire questa esperienza carica di umanità una trovata pubblicitaria» .

Damiano Aliprandi

Articolo pubblicato l’11 febbraio 2020 sul quotidiano Il Dubbio

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