Erano tempi nei quali si combatteva ancora per diritti primari.

La legge 15 dicembre 1972 n. 772 (legge Marcora) aveva finalmente concesso  il diritto all’obiezione di coscienza e al servizio civile sostitutivo pur con molte restrizioni (otto mesi di servizio in più, commissioni che valutavano l’esclusione per motivazioni politiche, dipendenza dai codici e dal Tribunale militare).

Ma prima di tale legge l’obiezione di coscienza era sostanzialmente non consentita e sanzionata con lunghe detenzioni in carcere: il Tribunale militare di Torino, che aveva amplissima competenza su quasi tutto il Nord di Italia, era stato invaso da una infinità di processi a obiettori suicidi vittime di un esito obbligato: la condanna.

Eppure voglio ricordare che in tali lunghi armi un grande avvocato continuò a difenderli e a battersi per dimostrare l’assurdità di un tale divieto: il nostro Bruno Segre.

Per parte mia, non appena riuscivo, lo seguivo come un cagnolino ringhioso e Bruno con paterna indulgenza mi lasciava intervenire assieme a lui.

Va detto subito che l’imputato, che compariva in stato di detenzione, non era mai solo: i suoi  compaesani  (dintorni  di  Milano,  Valli di  Bergamo,  Varese,  Como)  affittavano  un pullman per arrivare a Torino e stargli vicino durante il processo.

Fu proprio questa assidua presenza che provocò una circostanza straordinaria che ancor oggi a distanza di una enormità di anni mi commuove.

Al termine di una udienza il Tribunale militare – un Tribunale tanto poco autonomo da dipendere disciplinarmente dal Procuratore Generale – si era appena ritirato in camera di consiglio per i pochi minuti necessari per la obbligatoria sentenza di condanna, quando mi accorsi che fra gli accompagnatori dell’imputato si era creata una particolare animazione e dei fogli passavano di mano in mano.

Fu così che, quando il Presidente ritornò in aula e lesse le prime parole di tale abituale condanna, il numeroso pubblico presente intonò un canto, energico e dolce assieme, che parlava dei loro paesi, della loro vita quotidiana e rivendicava con forza la libertà per il condannato.

Il Tribunale e il Procuratore Generale, non sapendo come reagire, rimasero in piedi, vittime prime della loro alterigia, ed inutili rimasero i non convinti “sgombrate l’aula”.

Il canto proseguì per molti minuti (per incso era nota all’epoca la straordinaria acustica dell’aula del Tribunale militare) il mio cuore batteva a mille e mi sembrava che Bruno muovesse le braccia come un autentico direttore di orchestra (ma non ne sono sicuro).

Finalmente i Carabinieri riuscirono a spingere il loro prigioniero all’uscita ma non riuscirono a far cessare il coro che proseguì ancora a lungo, commovente per nostalgia, fierezza e dignità.

Nel frattempo il Tribunale era uscito – anzi fuggito dall’aula – ed il Procuratore Generale era riuscito soltanto a biascicare che avrebbe preso provvedimenti.

Non compresi se si riferiva anche a Bruno e a me ma sperai che così fosse mentre uscivamo dall’aula circondati e protetti dai ragazzi del coro tutti insieme orgogliosi e felici.

Non resta che concludere che, ancora una volta, grazie a Bruno, come esorta Gorgia di Lentini, avevamo vinto la nostra battaglia fra l’onore e il disonore.

Giampaolo Zancan

(il cagnolino ringhioso)

 

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