1. 68 e dintorni

La vita della mia/ di molti della nostra generazione/ è caratterizzata dalla partecipazione. I nostri genitori vissero conflitti e trasformazioni incommensurabili coi nostri (dalle guerre mondiali alle dittature europee); i nostri figli si stanno avvicinando a una rivoluzione tecnologica (in sintesi la trasmissione del pensiero a distanza) di cui non abbiamo ancora chiare le implicazioni. Noi, i “babybomers”, vivemmo, tutto sommato, a ripercorrerli con la memoria, fenomeni modesti, ma trasversali, e, soprattutto, aperti alla nostra partecipazione. Ciò che segna la specificità del nostro tempo, è che noi eravamo dentro agli avvenimenti. Gaber lo aveva capito per primo (la libertà non è star sopra un albero…libertà è partecipazione).

A. Il 68

Il 68 della mia generazione comincia prima (nel 66 con le alluvioni e la partecipazione “militante “, nel 67 con l’occupazione di Palazzo Campana a Torino) e finisce male, coi partitini di sinistra e con gli anni di piombo. Non voglio con questo capitoletto, competere con le ricostruzioni sempre più accurate dei miei leader di allora (bello, Guido, e bel lavoro, Enrico), ma voglio estrarre dalla memoria un episodio circoscritto, in cui la rivoluzione riformatrice, mai seriamente perseguita, produsse un piccolo e strutturale cambiamento: l’ordinamento in semestri del Politecnico di Torino.

B. I semestri

B1. Solo chi ha la mia età ricorda che ogni anno accademico comprendeva 6/7 esami, che lo studente cercava di distribuire fra le sessioni di giugno, ottobre e gennaio, abbandonando di fatto lo studio delle materie oggetto di insegnamento, in una corsa a inseguire l’anno prima, che si concludeva, non di rado, con 1/2/3 anni fuori corso. Al politecnico questo era, per le leve dal 61 in poi (post scuola media unificata) un problema strutturale “di classe” si diceva allora: perché i fuori corso erano studenti lavoratori, spesso socialmente penalizzati, non in grado di seguire a tempo pieno le lezioni, a differenza di noi “figli della classe dominante”: virgoletto perché cito, e sono rimasto rispettoso delle tante idiozie che recitavamo. Perché dicevamo idiozie, ma facevamo cose. E cose piccole, ma serie.

B2. Andrea Bobbio ed io, pensando alla scuola che frequentavamo, in un lucido intervallo rubato all’ideologia, ideammo i semestri. Il ragionamento era semplice: se si fosse spezzato l’anno accademico in 2 semestri, con 3, 4 materie ciascuno, sarebbe stato possibile frequentare tutte le lezioni, dare gli esami al termine di ogni semestre, semmai recuperando eventuali ritardi nella sessione di ottobre. Il successo fu, francamente, inatteso da noi. Studenti di tutte le tendenze politiche e di tutte le appartenenze sociali, vennero alle nostre assemblee, condividendo e migliorando le proposte e costruendo una vera e propria trattativa col Vertice accademico. Questo era, all’epoca dei fatti, guidato dal Preside di Ingegneria, Paolo Buzano, mente lucida, curioso del nuovo, e oggettivo trasformatore del nostro slogan, in pochi mesi di discussione, in un nuovo regolamento della didattica e, soprattutto, in un diverso calendario delle lezioni e degli esami.

B3. Intorno a questa “riforma partecipata” cominciò a gravitare l’intelligenza del Politecnico. Gli assistenti, guidati dal rivoluzionario Cancelli e dal riformista Castellani (indovinate chi dei 2 avrebbe un giorno trasformato Torino… ma io continuo a voler bene a Claudio e a considerarlo un maestro, treni esclusi, si intende) divennero un sistema di innovazione, che traduceva le idee in proposte in miglioramenti, in sperimentazioni.

E questo perché le riforme partecipate sono veloci, perché sono capite, e riassorbono le resistenze, a differenze di quelle imposte, che le esaltano, e delle rivoluzioni, che le arrestano.

Che fine facemmo noi, riformisti antelitteram, e unici vincenti del Movimento di allora?

Ci vergognavamo un po’, davanti agli eroi che tiravano pietre in corso Traiano. Noi perdevamo tempo a cambiare lo Stato borghese che, come è noto, si abbatte e non si cambia, e cercammo di fare autocritica.

Il più intelligente di noi (Giovannino Ferrero) rimase revisionista, spesso incazzato, ma mai pentito.

Ci portò a conoscere operai veri, alle Ferriere Fiat (TEKSID per i nostri figli), dove imparammo il riformismo della CGIL, in realtà simile al nostro.

A Medicina studiammo Mare con Vittorio Riesser, conoscendo amici di una vita.

E qualcuno, in qualche corridoio più oscuro, ci raccontò che a Trento sì, che si faceva la rivoluzione: c’erano Curcio Cagol Franceschini…

B4. Andrea ed io ci laureammo insieme, nell’ottobre del 69, dopo 5 anni esatti, naturalmente con i semestri, con la stessa tesi. A lui diedero la lode e a me no, esplicitando nel conferimento “per motivi disciplinari”. A quei tempi ne fui orgogliosissimo, e cercai di capire se il Dott. Ernesto Guevara avesse avuto la lode.

 

Oggi, a 50 anni da questi avvenimenti, mi coglie spesso un grande scoramento, se penso alle intelligenze politiche di Sofri, Viale, Riesser rigettati ai margini della Storia mentre finti riformisti si proclamavano élite, per sfociare ai finti rivoluzionare che si proclamano onesti.

Ma, poi, questo scoramento mi passa e penso che noi, in fondo i semestri li abbiamo fatti, e si sono estesi a tutti gli Atenei italiani. Credo che molti giovani non abbiano letto altrove questa storia, tanto oggi i semestri sono ovvii.

Beh, non lo erano, come non lo è stato quel tanto, non quel poco, che le generazioni di accademici post 68 hanno gradualmente offerto, in termini di innovazione e di progetto, ai nostri figli e nipoti.

Perché l’innovazione non è solo strutture, ma è metodo-

2. Il metodo partecipativo e i problemi di oggi

La parabola dei semestri al Politecnico non contiene una regola politica generale, ma, più modestamente, alcune regole semplici, che emergono nella gestione di corpi organizzati:

I. La gente partecipa se coglie con chiarezza un vantaggio per sé nel successo generale;

II. La gente partecipa se crede nella concreta possibilità di vincere;

III. La gente partecipa se crede di essere tutelata in caso di sconfitta.

Queste 3 regole spiegano, a mio avviso, molti aspetti della nostra generazione, e in particolare,

i   il lungo predominio del Sindacato nelle relazioni industriali delle grandi imprese;

ii   le difficoltà strutturali del riformismo politico, e di quello socialista in modo particolare, sguarnito sul fronte sindacale;

iii   il suicidio politico del movimentismo estremista, che corse in testa alle masse distanziandole, alla fine, nella tragedia degli anni di piombo.

Le 3 regole citate, coincidono, sostanzialmente, nella loro applicazione odierna, con i principali problemi del Paese che abbiamo di fronte:

  • La lunga fase dell’egemonia sindacale, seguita agli anni del boom economico, e inaffondabile, o quasi, nel sistema pubblico, è, innegabilmente, tra le componenti fondamentali del debito pubblico italiano;
  • La debolezza strutturale dei socialisti è, senza dubbio, la causa ultima dell’anomalo bipartitismo italiano fra DC e PCI e delle fragilità istituzionali (fino all’attuale drammatica crisi) dell’alternanza politica e delle formazioni “post qualcosa” che l’hanno attraversata (da FI al PD);
  • Il suicidio politico dell’estremismo marxista si legge facilmente, per chi ha l’occhio allenato, nei deliri pentastellati e, sul fronte opposto, nella recrudescenza delle nostalgie più fosche del nostro passato.

I nostri anni di partecipazione sono, insomma, avviluppati con i nostri successi e le nostre sconfitte, con le speranze migliori e con gli incubi che ci circondano. Credo che ripercorrere e confrontare pezzi delle nostre biografie, possa essere un fondato fattore di autocritica, ma anche di conforto.

 

Mi piacerebbe molto se la nostra, storica e nuova, testata, potesse ospitare un contenitore di questo genere, una specie di “melting pot” della nostra esperienza e dei progetti dei giovani, almeno di quelli che avranno interesse e passione per partecipare

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