Dallo scorso mese di ottobre leggiamo ormai su tutti i giornali: la California è il primo stato americano a introdurre per legge le cosiddette “quote rosa” nei consigli di amministrazione delle società quotate. In California le società quotate, dalla fine del 2019, devono avere almeno una donna nel proprio consiglio di amministrazione e, dal 2021, tutti i consigli composti da almeno cinque membri dovranno contare almeno due donne. L’inottemperanza alla norma verrà sanzionata con una multa.

La notizia ha scatenato in me delle importanti “emozioni” (da donna e mamma, oltre che da operatrice sociale come Avvocato), oltre che alcune riflessioni: le quote rose rappresentano ancora oggi una discriminazione di genere contro il sesso maschile? Una legge che afferma in modo così radicale il femminismo dell’uguaglianza formale può essere considerata espressione del pensiero femminista?

Per riflettere su tali interrogativi mi sono cimentata in uno studio nel quale ho approfondito, sotto un profilo storico e filosofico, le varie fasi del pensiero femminista e i principi sottesi allo stesso.

La storia ci insegna che il pensiero femminista nasceva durante il periodo della Rivoluzione francese (“Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” di Olympe de Gouges, 1791) e rivendicava la parità di condizione tra uomini e donne sul piano dell’educazione e dei diritti civili.

Nel 1865 in Gran Bretagna aveva luogo la “prima ondata femminista” che vedeva come protagoniste “le suffragette” e il diritto di voto.

Sempre a metà del XIX secolo, con Marx ed Engels, si rifletteva – oltre che sulla rivendicazione dei diritti civili vantati dalle suffragette – sul problema della condizione materiale di oppressione delle donne. Secondo tali influenti pensatori originariamente la società umana era caratterizzata da una parità sociale dei ruoli, entrata in crisi con l’insorgere della proprietà privata. Capitalismo e famiglia borghese venivano individuati come oppressori del genere femminile.

Lenin, nel 1921 (negli scritti dal titolo “La giornata internazionale delle operaie” pubblicati sul Supplemento al n. 51 della Pravda, 8 marzo 1921) considerava necessaria l’emancipazione della donna per il benessere della società e affermava che tale emancipazione era possibile solo con la liberazione della donna dall’oppressione della “schiavitù domestica”. Tale liberazione dalla schiavitù doveva passare attraverso la valorizzazione del ruolo lavorativo della donna per un’economia collettiva alla quale la donna doveva prendere parte alle stesse condizioni degli uomini.

Nel 1920, poi, il movimento femminista entrava in crisi. La prima e la seconda guerra mondiale avevano inciso notevolmente sul concetto di famiglia e sulla importanza della figura della donna all’interno del focolaio domestico. La donna, in particolare la donna americana di quegli anni, era considerata il punto di riferimento incontestato e l’unica garanzia della “buona riuscita” della vita della famiglia medio-borghese. Le donne diventavano lavoratrici per una questione di esclusiva necessità economica e venivano inserite negli ambiti produttivi per ricoprire i posti lasciati vacanti dagli uomini impegnati in guerra e ottenevano i lavori peggio remunerati nella scala professionale.

La crisi del movimento femminista durava fino agli anni sessanta‐settanta del Novecento, quando un’altra generazione di donne faceva partire la “seconda ondata femminista”.

Nonostante l’uguaglianza rivendicata dal liberalismo si considerasse ormai raggiunta (anche in Italia nel 1946 veniva riconosciuto il suffragio universale), rimanevano importanti problemi: (i) l’assenza di pari opportunità nei luoghi del lavoro e della politica; (ii) il lavoro domestico e della cura dei figli ancora era totalmente a carico delle donne; (iii) una tensione di fondo nel rapporto con gli uomini; (iv) il concetto di inferiorità della donna veniva pubblicizzato in tutte le forme e con tutti i mezzi. Le donne di questa nuova generazione ritenevano liberalismo e socialismo non più sufficienti.

E’ qui che aveva origine il pensiero della differenza sessuale, da collocarsi nella fase di latenza del movimento femminista e attribuibile alla riflessione di due importanti autori del Novecento: Virginia Woolf e Simone de Beauvoir. Si formulava un discorso centrato non più sull’uguaglianza formale, ma sulla differenza tra uomo e donna e sul riconoscimento di diritti diversi, funzionali al raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna.

Negli anni 90, in particolare, si parlava di “terza ondata femminista”, sebbene, di fatto, il pensiero femminista rimaneva incentrato sui principi sviluppatisi nella seconda ondata. In questi anni proseguiva la crescita della scolarizzazione delle donne e aumentava il lavoro femminile nelle professioni considerate maschili. Se per un verso, si iniziavano ad intravedere i primi risultati di un lungo e lento percorso di riconoscimento del valore della donna nella società, per altro verso agli inizi del nuovo millennio aumentavano gli episodi di violenza contro le donne. L’uomo si rivelava incapace a relazionarsi a soggettività diverse e più libere. Di questo sono consapevoli le nuove generazioni di donne che, auspicando un cambiamento, nel 2017, creano il movimento #MeToo per denunciare la diffusione di violenza sessuale e molestia soprattutto sul posto di lavoro subita dalle donne.

Ormai nel 2020, quali sono i risultati tangibili di anni di conquiste e di emancipazione femminile? Basandoci su elementi (e non esclusivamente su pensieri) dobbiamo registrare un dato personalmente “doloroso”: le donne a livello mondiale sono in una condizione di netta inferiorità (che mi piace chiamare disparità) rispetto all’uomo nell’assunzione di ruoli e non solo apicali (in Italia ci si stupisce ancora per la nomina di una donna come Presidente della Corte Costituzionale), ma anche nel riconoscimento della pari retribuzione a parità di condizioni.

Dal Global Gender Gap Report del World Economic Forum 2020 emerge che le donne sono partite con uno svantaggio tale che pare serviranno 99,5 anni per colmare tale divario. Ovviamente non dappertutto il gap di genere è il medesimo: l’Europa occidentale e il Nord America rispetto alla situazione generale sono le più virtuose, mentre i Paesi più poveri sono nel complesso quelli in cui si trovano differenze di genere più gravi. L’Italia non è all’avanguardia e, rispetto al 2019, perde 6 posizioni atteso che è poco al di sopra della media (76° posto nel ranking WEF). L’Italia vede lavorare meno di una donna su due: solo il 57% delle donne di età compresa fra 25 e 54 anni con figli piccoli lavora, rispetto al 90% dei padri nelle stesse condizioni.

Tali dati risultano ancor più sconcertanti se si considera che numerose pubblicazioni, a livello nazionale ed internazionale, indicano un maggior benessere e un miglior funzionamento del sistema economico e del mercato del lavoro quando sussiste un coinvolgimento attivo delle donne. La crescita del tasso di occupazione femminile, stando a questi studi, può rappresentare uno stimolo fortissimo alla crescita del PIL.

Registrati tali dati e metabolizzato il fallimento a livello mondiale delle politiche attuate per le pari opportunità di genere, la conclusione non può che essere una: non si può attendere da meri spettatori il cambiamento culturale ed è il momento di agire per il benessere della società.

È ovvio che la principale problematica sia la conciliazione della funzione materna con il lavoro extra domestico. Ancora oggi si ritengono colpevoli le madri che lavorano di tutte le devianze dei propri figli, senza considerare che la madre che lavora può essere, invece, una madre migliore perché psicologicamente più forte: un esempio, non solo per il proprio figlio, ma per le generazioni non solo di donne, ma anche di uomini che verranno.

Perché, dunque, non investire su un cambiamento di genere sostenibile? Perché non auspicare interventi legislativi di ispirazione affine a quello californiano anche sulla scorta di un’evoluzione contemporanea di quello che era stato il pensiero marxista- leninista dell’uguaglianza formale? Se è vero che ai sensi dell’ordinamento italiano, e nello specifico in rapporto agli articoli 3 e 51 della Costituzione, le cosiddette “quote rosa” rischiano di essere costituzionalmente illegittime perché contrastanti con il principio di eguaglianza sia formale che sostanziale, perché non supportare le donne con interventi – ulteriori e non esclusivi – volti alla valorizzazione del genere femminile e, dunque, al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale?

Si auspica l’apertura di un dibattito dai risvolti non più esclusivamente di principio (qual è l’affermazione del principio di uguaglianza tra uomo e donna), ma economici. Solo l’economia dalle pari opportunità tra uomo e donna sarà un’economia virtuosa capace di sconfiggere la paura e l’insoddisfazione dell’epoca contemporanea e di ingenerare fiducia per le generazioni future.

Natalia Bagnato

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