In sala ci sono imprenditori, distretti industriali, associazioni d’impresa, università, centri di ricerca, parchi tecnologici. Si discute dell’innovazione in campo agroalimentare in Italia e Olanda. Si progettano scambi e collaborazioni tra aziende e ricercatori dei due paesi. E’ il lato bello dell’Europa. Si avverte qualche momento di stupore, quando la Food valley di Wageningen, un pezzetto di Olanda compreso tra Utrecht e Nijmega, descrive le strategie adottate per consolidare la leadership mondiale nella produzione del pomodoro. Uno scherzo o una provocazione? Ma come? Vengono a insegnarci come si producono i pomodori? E’ proprio così. L’Olanda è uno dei primi esportatori di pomodori freschi in Europa, il terzo esportatore al mondo. Ogni anno arrivano in Italia circa 50.000 tonnellate di pomodori olandesi. I nostri ospiti snocciolano una serie di risultati brillanti raggiunti e le stime delle ricadute a vent’anni che si genereranno dall’innovazione innescata dalla food valley. Nel 1990 hanno collegato il primo portatile alle serre, lanciato un master universitario avanzatissimo. Oggi i dati stanno in cloud e si sono avviate collaborazioni intense con il MIT. La tecnologia ha fatto del pomodoro di Wageningen un prodotto perfetto. La risposta italiana è scontata. Sarà ma il nostro è più buono, il vostro è insipido e tutto uguale. Forse, ma a Wageningen non sembrano preoccuparsene troppo. Applicano al pomodoro o al peperone, come al più noto caso della floricoltura, il mantra del management americano “think big, start small, fail quickly, scale fast”. Lo fanno con determinazione e pazienza e ne sembrano piuttosto soddisfatti. Pensano in grande, applicano in piccolo e si correggono velocemente. Da queste innovazioni si aspettano di conquistare la leadership mondiale nell’agrifood.

La relazione esistente tra conoscenza, innovazione e crescita oggi viene spiegata con il neighborhood effect, “l’effetto vicinato”. Il capitale umano di alto livello è molto influenzato dalle condizioni ambientali. Cresce nelle comunità che hanno obiettivi ambiziosi e alta competizione interna. Una società che cerca un posto nell’economia della conoscenza opera per costruire condizioni ambientali favorevoli al lavoro di elevata qualità. Questo a sua volta attrae altri investitori e talenti. Questi a loro volta faranno crescere le imprese sulle frontiere dei servizi e della tecnologia. E così via.

Un mondo che gareggia in creatività sembrerebbe disegnato per noi, convinti che questa sia una nostra virtù naturale ed esclusiva. Il perché questa dote non si traduca in crescita robusta e lavoro di qualità, resta un punto di domanda. Il nostro talento fa fatica ad attecchire, a mettere radici con un’esperienza plurale e organizzata. L’innovazione italiana ama essere individuale e spontanea, carsica e discontinua. La presenza di ricercatori italiani nelle pubblicazioni di altissima fascia ci dice che siamo bravissimi, in testa su energia, design, advanced manufacturing, made-in e tecnologie per gli ambienti di vita, salute, pressoché alla pari con gli Stati Uniti. Siamo bravissimi ma siamo pochi, un numero di ricercatori e tecnici pari a un quarto dei francesi e a un ottavo dei tedeschi, e facciamo fatica a trattenerli. Ogni anno tra i ricercatori premiati dall’European Research Council, molti sono italiani, ma spesso operativi in università estere. In patria il 96% degli assegnisti di ricerca italiani si perde ed esce dal mondo della ricerca. Il mercato del lavoro stenta a premiare la qualità: solo 4 addetti ogni 1000 hanno il dottorato, contro 17 in Finlandia, 11 in Giappone, 8 in Germania e Gran Bretagna. Ancora oggi, salvo alcuni settori (pharma, chimica, meccaniche avanzate) il diploma fa premio sulla laurea. Le statistiche ci dicono continuamente che l’investimento in R&D è tra i più bassi dell’area OCSE. Abbiamo una buona propensione a innovare a breve, ma investiamo troppo poco in ricerca rischiosa e lontana dal mercato, un bel punto di PIL meno dei nostri amici olandesi. Ciò detto siamo la seconda manifattura d’Europa e abbiamo conquistato una posizione di leadership in molte classi di prodotto.

L’universo degli innovatori italiani ha straordinarie qualità, un bel potenziale, ma è mal distribuito e troppo piccolo. In più i soci di questo club molto esclusivo operano in un ambiente piuttosto difficile. L’effetto vicinato si fa sentire anche da noi, ma con effetti contrari. Per l’European Regional Competitiveness Index del 2016 i luoghi più attrattivi, in cui il capitale umano di qualità scarica la propria forza innovativa ed esercita un effetto magnetico utile alla crescita, sono quelli che hanno le minori differenze interne e i maggiori livelli di coesione. Le prestazioni dell’Olanda, il paese che risulta complessivamente più attrattivo, spiccano per le piccole differenze tra Utrecht, la migliore in Europa e la Frisia, la peggiore olandese ma migliore di quasi tutti i territori dell’Unione. Coese sono la Finlandia e la Danimarca, omogenee Germania e Svezia. Forti sono le grandi aree metropolitane, Berlino, Londra, Parigi e Madrid, ma anche aree del nord e centro Europa, come Anversa o Bratislava, hanno indicatori di tutto rispetto. Utrecht ha il primato assoluto. Noi siamo progressivamente scesi tutti sotto la media europea, con la sola parziale eccezione della Lombardia, che si conferma traino d’Italia, ma che perde posizioni rispetto ai territori più forti. Il nord-est, l’Emilia-Romagna, il Piemonte sono ben lontani dalla testa.

La dotazione d’infrastrutture, la qualità dell’istruzione, spiegano parte delle nostre debolezze. Il funzionamento delle istituzioni resta l’obiettivo primario da raggiungere perché la forza dell’innovazione si esprima appieno. Siamo bravi a generare business e impresa sofisticata, a competere sui mercati globali, ma sbandiamo pericolosamente nell’istruzione universitaria, nel digitale e nelle competenze della popolazione adulta, emergenza dimenticata. Al censimento del 1951 i laureati italiani erano 422.000, l’1% della popolazione, quattro giovani su 100 andavano all’università. Sessant’anni dopo il paese contava più di 6 milioni di laureati e accedeva all’università più del 60% dei diplomati. Sono numeri testimoni di un profondo cambiamento, ma sensibilmente inferiori a quello dei nostri concorrenti europei. La quota di laureati e di popolazione attiva ad alta qualificazione è al di sotto degli EU27, superata da Grecia, Slovenia, Portogallo.

La capacità innovativa non è insomma un dono naturale. Al contrario si sviluppa dove ci sono istituzioni ben funzionanti e un solido sistema di educazione, fin da quello prescolare. Innovatori forse si nasce, come pensiamo noi, sicuramente lo si può diventare come fanno gli altri. La forza innovativa di una nazione è il risultato di un’azione collettiva e paziente, non è basata su solisti di talento. Incide sulla crescita solo se c’è una costante applicazione di tutti per anni.

L’innovazione è un titolo che paga un dividendo politico solo a lungo termine e di solito lo incassa qualcun altro. Forse, al di là delle statistiche e di molte analisi, un po’ della spiegazione della nostra attuale condizione sta semplicemente in questo.

Andrea Bairati

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