La distanza nel tempo aiuta a rimuovere i ricordi, gli aspetti negativi della vita, per fermare solo quelli belli. È una debolezza dell’età, che il presente, soprattutto se non è troppo di nostro gradimento, tende ad accentuare, lasciando che i nostri eventuali atteggiamenti critici si depongano sul fondo. È un fenomeno che coglie tutti noi, senza eccezione, come un voler tornare in superficie per prendere aria.

È quello che è accaduto a Dunja Badnjević, donna straordinaria, scrittrice, traduttrice di grande spessore nel suo libro “Come le rane nell’acqua bollente”, edito da Bordeaux. È il racconto dei suoi ricordi di un Paese che non c’è più, la Jugoslavia, ma che vive nel suo cuore come un valore soprattutto identitario, non essendo lei serba, pur nascendo a Belgrado, ma di madre croata e di padre erzegovese, di Počitelj, figlio a sua volta di una nobile croata di fede musulmana e di un padre bosniaco, e perciò anche bosniaca, erzegovese e croata. In una parola: jugoslava.

È di fronte allo smarrimento che la atroce guerra degli anni Novanta tra i popoli che componevano quel paese, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, portandola alla dissoluzione, che ha spinto Dunja a cercare una ricomposizione che dia un senso alla sua vita, ma anche al sogno di suo padre Ešref, che per quella Jugoslavia aveva combattuto e alla quale aveva ceduto tutte le sue ataviche proprietà, pagando un prezzo altissimo quando, espulso il Paese dal Cominform nel 1948, si trovò dalla parte di Stalin. Già ambasciatore jugoslavo a Il Cairo, venne arrestato e deportato nella cayenna di Goli Otok. Esperienza terribile, che ha ispirato un altro bellissimo libro di Dunja “L’isola nuda”, quello sì di una forza evocativa che non fa sconti a nessuno, tanto meno alla Jugoslavia di Tito che in nome del comunismo non aveva esitato a brutalizzare e uccidere migliaia di compagni non allineati alle sue posizioni politiche, così come prima le tante vittime innocenti in Istria e a Fiume in nome di un progetto di annessione territoriale che ha portato al più grande esodo da quei territori, per altro abituati storicamente alla convivenza tra etnie diverse, così gettandolo in un vuoto demografico riempito con innesti di altre popolazioni che hanno notevolmente cambiato il loro volto, la loro cultura, le loro tradizioni.

In “Come le rane nell’acqua bollente” gli sconti, invece, sono tantissimi. A cominciare dalla rimozione di tutte le sofferenze che sono costate a migliaia di persone nella edificazione socialista di quel Paese, in nome di un’idea, sulla carta, di libertà e di fratellanza tra i popoli, nella realtà di pugno di ferro, che ha mostrato tutto il suo fallimento quando, dopo quarant’anni di regime, il risultato è stato una guerra fratricida senza uguali, prodromo di un nazionalismo esasperato che condiziona fortemente, senza possibilità di ritorno, l’attuale situazione geopolitica del Balcani. Dunja, guardando costernata cosa è rimasto di quel Paese, ripete spesso quanto ne avrebbe sofferto il padre, che per la Federativa aveva combattuto e, in qualche modo, giudica un bene che, morendo prima, gli sia stata risparmiato il dolore di assistere a quello sfacelo.

Il titolo del libro è significativo. Si rifà alla allegoria delle rane che vengono messe nell’acqua fredda e poi, piano piano, mentre l’acqua si scalda per portarla all’ebollizione, si sono talmente abituate al cambiamento da non accorgersi di quanto stava loro succedendo per poi trovarsi alla fine bollite. È quello che è successo agli jugoslavi. Ma chi ha acceso il fornello?

Il punto è questo, ed è questo che Dunja, stregata dalla propria nostalgia, ha tralasciato, gettandosi in quella pentola e lasciandosi a sua volta un po’ alla volta bollire dai ricordi. Per cui, ecco, descrive Tito non come il presidente – per altro, tutt’altro che democraticamente, a vita – di un paese socialista, ma come il re delle favole, con il suo panfilo personale, il Galeb, il suo treno personale, il famoso Treno blu: “Come leader dei paesi non allineati viaggiava molto sulla ‘sua’ nave, Il Gabbiano, e sul Treno blu, e talvolta sembrava di viaggiare con lui”. Con la stessa nostalgia rammenta quando, rientrata col padre a Belgrado, dopo tre anni che è stato ambasciatore, “andammo ad abitare in una villa con piscina sulla collina della nomenclatura di Stato, Dedinje, proprio di fronte alla residenza di Tito”, che dà idea del regime e della sua reggenza oligarchica, anche se Dunja ha un giusto sussulto, contrapponendo a questa condizione di privilegio le critiche paterne, uomo generoso di famiglia ricca che aveva donato tutto allo Stato, contrario com’era a privilegi di ogni tipo. “Sosteneva che non aveva combattuto per questo, che i quartieri residenziali dovevano essere destinati ai bambini e agli anziani, agli asili e alle case di riposo. Lui, che era nato nobile e ricco, pretendeva ad alta voce un mondo più equo”. E, come sapremo dall’altro libro di Dunja Badnjević, “L’isola nuda” appunto, mal gliene incolse, perché, anche per il fatto di trovarsi dalla parte di Stalin, finì a Goli Otok e per ben due volte. E quella non era la Jugoslavia di “Come le rane nell’acqua bollente”, l’acqua, a pochissimi anni dalla sua nascita era già in ebollizione, ben lo sa Dunja che solo dopo tanti anni, a Jugoslavia dissolta, ha avuto la forza di andare a vedere quel luogo di sofferenze disumane, riconoscendo nel sentiero bianco e asfaltato che aveva imboccato sbarcando sull’isola “il ‘sentiero di sangue’ di cui ho sentito parlare tante volte e che dovevano percorrere i nuovi arrivati, tanti anni prima. Allora era di pietra tagliente e mentre lo percorrevano, su in alto, in mezzo alle forche caudine di un doppio cordone di uomini urlanti, venivano picchiati in modo disumano, e i loro piedi sanguinavano lasciando rivoli sul terreno”. L’inizio di un viaggio agli inferi che avrebbe coinvolto migliaia di vittime.

Non c’è traccia di quella Jugoslavia che Dunja ha ben conosciuto e che le è già costata molto dolore, tanto ne emerge in quella sua straordinaria testimonianza, che forse, proprio per questo, preferisce far assopire. No, meglio lasciarsi accarezzare dai ricordi più innocenti, anche se solo apparentemente tali in un paese che si voleva socialista. Ricordi come quello del suo liceo esclusivo e, tra questi, quello dell’insegnante di matematica, della quale a Dunja incantavano gli abiti che indossava. “Era la moglie di un ministro: macedone, molto bella, arrivava a scuola in auto con l’autista ed era sempre elegantissima”.  Una cosa del genere nell’Italia capitalista susciterebbe proteste, inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari, scioperi studenteschi. Lì no. E come avrebbero potuto? Un solo articolo di critica a riguardo e Goli Otok o Sremska Mitrovica avrebbe accolto direttore del giornale e giornalista firmatario dell’articolo. E Dunja, se non avesse deciso, in questo libro, di soffocare la sua voce critica qui, invece glissa, scrivendo: “Mi ricordo ancora un suo vestito di maglia, grigio con sottili rifiniture rosse. Quel vestito lo avrei poi sognato per molto tempo, incarnava il mio ideale di ‘eleganza’”.

Di tutto ciò, e in realtà molto altro a riguardo, ho parlato con Dunja, che è una cara amica, a cui voglio molto bene. La ritengo una delle persone migliori che conosca. E la sua risposta è stata “Hai ragione”. Tutti noi sappiamo quanto la nostalgia sia canaglia, perché sopravvive solo alle cose belle facendoci trascurare quelle brutte. E forse capita di più proprio alle persone che hanno sofferto molto. Nella mia mente c’è il ricordo di quel dolore grande provato da Dunja bambina, l’inizio di esso, di quei quattro anni, come ha scritto, sottratti alla mia infanzia. È quando ne “L’isola nuda” racconta quando vennero ad arrestare suo padre. “Ho compiuto cinque anni da poco più di un mese. (…) Svegliata di soprassalto nella notte da voci alterate e dallo sbattere dei cassetti aperti e richiusi con violenza, dalle porte che cigolavano, da passi affrettati e pesanti, rimango immobile nel letto. (…) Si sente una risata forzata e sconosciuta, che penetra quasi attraverso le fessure, insieme alle strisce di luce. Avvolta in un plaid di lana ruvida mi avvicino lentamente cercando di non fare rumore, ma attraverso la toppa della chiave è difficile distinguere qualcosa. Ho paura di essere scoperta, ansimante e scossa da brividi in una stanza mal riscaldata. È un inverno particolarmente rigido, ma le alte stufe maiolicate di notte rimangono spente per la penuria di carbone”. C’è il ricordo struggente del padre a cui viene concesso di salutare i figli, Dunja e il piccolo Zoran, di appena tre mesi. Lo sente arrivare, Dunja corre verso il letto e si tuffa sotto la coperta. “Sento mio padre entrare piano in camera, mi bacia lievemente sulla fronte credendomi addormentata. Poi, si volta e guarda il mio fratellino. (…) La grande porta si richiude di nuovo. I passi di mio padre si mescolano agli altri e sento sbattere il pesante portone di casa. Di nuovo solo silenzio. Sembra quasi che io abbia sognato”. Purtroppo non sarà così. Come le rane nell’acqua bollente, di quella Jugoslavia la piccola Dunja ne ha avuto abbastanza. Meglio dimenticarla. Oppure farne una favola che addolcisca questi giorni, la delusione che li attraversa.

Diego Zandel

*Nella foto di copertina il carcere per prigionieri politici di Goli Otok (Keni/Shutterstock)

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