Gli altipiani trentini

La strada che da Calliano, poco a nord di Rovereto, sale agli altipiani di Folgaria, Lavarone e Luserna, mi ricorda il tratto iniziale della mitica prova speciale del Rally di Montecarlo da La Bollene Vesubie al Col de Turini. Arrivati a Folgaria, sulla sinistra, il cimitero militare contiene le spoglie di 2500 soldati austroungarici e un proiettile da 420 che mi arriva alle orecchie: erano i “confettini” che il gigantesco cannone “Grande Giorgio” trasportato su rotaie sparava dalla penisola di Calceranica su Asiago. Sia sul fronte Austroungarico che su quello Italiano molte ed importanti sono le fortificazioni realizzate in questa zona dagli Stati che pur erano alleati fino alla primavera del 1915.
A destra si può scendere verso Passo Coe, luogo di battaglie ma anche della importante “Base Tuono” della Nato ormai dismessa ma visitabile (impressionanti le carcasse di missili in postazione); a quattro passi ricordi della Resistenza. Crocevia della Storia tra grandi prati. Ma proseguo verso Lavarone – a destra lassù si vede Forte Cherle – e, qualche chilometro dopo, le indicazioni a sinistra per scendere verso l’ex comando Austriaco, scavato nella roccia ed ora coperto dal bosco.

Qualche chilometro ancora e, sulla sinistra, l’indicazione per il cimitero austroungarico di Slaghenaufi, struggente nella serenità di quelle 800 croci di legno fatte a casetta nel praticello perfetto. Vado verso Passo Vezzena per salire al Pizzo di Levico nella cui vetta è scavato Forte Spitz. Da Sud, cima della montagna. Da Nord si vede il forte di tre piani scavato nella roccia dagli Austroungarici: la vedetta degli altipiani. Prendo il sentiero che passa accanto a quel che rimane di Forte Busa Verle, distrutto, fatto oggetto di oltre mille colpi di artiglieria italiana. I prati intorno sono ancora butterati dai crateri dei colpi di obice e si intravedono le linee delle trincee. A Forte Spitz si sale in due ore circa di cammino e il panorama è grandioso: le Dolomiti di Brenta, l’enorme Gruppo del selvaggio Lagorai, le Pale di San Martino. Ma oggi, qua e là, le fitte foreste verdissime sono interrotte da macchie marrone: è l’effetto Vaia, la tempesta di vento del 29-10-2018 che ha agito come un gigantesco frullatore ad immersione azionato qua e là nelle foreste (tornerò sull’argomento).

La strada che da Passo Vezzena porta ad Asiago ci consegna, sulla destra, il capitello che ricorda la sanguinosa, inutile, velleitaria battaglia del Col Basson nell’agosto del 1915. Furono circa 1100 le perdite per l’insipienza di un Generale che ordinò l’attacco in condizioni impossibili: “i reticolati si superano con il petto e con i denti”, disse secondo i testimoni. Ed ecco l’attacco sotto la luna piena, la fanfara, ufficiali in testa con le loro scintillanti sciabole. Eccoli infrangersi sui reticolati.

Sono fortunato – penso tra me e me – ad essere nato in tempo di pace: mi avrebbero fucilato alla schiena, sempre meglio che rimanere dilaniato sui reticolati. Ora verso Luserna, con il suo Forte in via di ristrutturazione raggiungibile attraverso straordinari prati fioriti. E poi il bel museo in centro al Paese, storie di sfollati e del loro ritorno. Anche il lupo è tornato, come la lince. Nel rientrare verso Lavarone non si può non visitare il Forte Belvedere, intatto e ben tenuto con il ricco museo. Mi fermo all’Hotel vicino al lago, così amato dal Dott. Freud, eccolo con la sua cagnetta in una foto in sala da pranzo. Acuta intelligenza quella del Dott. Freud; vivace ingegno umano mal impegnato quello della costruzione di Forte Spitz; arroganza criminale quella del nostro Generale. Queste le cose che ho nello zaino stasera.

“Venti giorni sull’Ortigara…ta pum ta pum ta pum”

Quando mi chiedono di indicare un posto, solo un posto, un posto solo nel quale andare e precipitare nella tragedia della Grande Guerra rispondo senza esitazione “l’Ortigara”. In un modo o nell’altro quella canzone l’abbiamo sentita tutti, “Venti giorni sull’Ortigara senza il cambio per dismontà – à ta pum ta pum ta pum… Cimitero di noi soldati forse un giorno ti vengo a trovà – à ta pum ta pum ta pum ta pum ta pum ta ta a a a”.

Ci torno periodicamente ed è un pellegrinaggio. Da Asiago su verso Gallio e poi seguire le indicazioni, la strada si fa sterrata, prati, pascoli e boschi. Non ci sono ancora tornato dopo Vaia ma ci tornerò presto. Al piazzale Lozze inizia la zona monumentale. Le bacheche sono ricche di informazioni e meritano di essere lette con attenzione per capire bene “dove siamo”. Dopo una breve camminata siamo sul Monte Lozze, bacheche e informazioni, a nord Cima Caldiera con le trincee della linea Italiana perfettamente percorribili. Dall’altra parte, ad ovest, di fronte, eccolo l’Ortigara, sembra un innocuo panettone di roccia diviso dalle linee Italiane da un placido valloncello erboso sul quale si rincorrono marmotte. Il vallone della morte.

Lo percorro verso nord perché mi piace salire sulla vetta dalla parte più impervia, dal Passo dell’Agnella, arrivare al Cippo Austroungarico e vedere un centinaio di metri in là, tre metri di dislivello sopra, la colonna spezzata sulla vetta, posta dagli alpini “per non dimenticare”. Quei pochi metri di distanza e dislivello sono costati centinaia e centinaia di perdite solo in questo ridottissimo settore. Vittoria fragile ed effimera quella Italiana con tutto quel sangue versato. Già la prima notte arrivarono le Sturmtruppen con i lanciafiamme e scacciarono gli Italiani non ancora insediati. Gli Austroungarici avevano organizzato un contro assalto molto ben articolato: prima lanciafiamme, poi battaglioni all’arma bianca e subito dopo gli zappatori per consolidare immediatamente la vetta riconquistata. L’esercito imperiale era specialista in queste manovre e le truppe Italiane invece sempre carenti di programmazione.

L’ultima volta ho trovato le bacheche di vetta sbiadite e pressoché illeggibili, peccato (carenti di programmazione allora, carenti di manutenzione oggi). Poco più in là dalla colonna troviamo la campana: il rintocco è un rito, un saluto, un omaggio. Sulla via del ritorno possiamo salire su Cima Caldiera stabilmente in mano Italiana e una bacheca spiega un particolare agghiacciante: l’inverno del 1917 era stato freddissimo e nevosissimo. In quel mese di giugno le nostre truppe sono uscite dalle linee sui pendii di Cima Caldiera per attraversare il vallone e risalire le impervie pareti dell’Ortigara munite di nidi di mitragliatrici nemiche in trincee di roccia. Come se non bastasse l’assalto allo scoperto, come se non bastasse la perfetta visuale per il fuoco nemico, come se non bastasse il dislivello da superare, il fondo era anche abbondantemente innevato. Una prevedibile ecatombe.

Quella che viene chiamata la battaglia dell’Ortigara nel giugno del 1917 e che si svolse sul settore nord-ovest dell’Altopiano di Asiago durò circa quindici giorni. Non produsse nulla. Ma quel nulla costò trentamila perdite. Me ne torno sempre con un groppo in gola e fra me e me canto “Al milite ignoto” di Claudio Lolli: dice tutto, più di tutto, più di chiunque altro.

L’Altopiano di Asiago e il Monte Zebio

Emilio Lussu nelle prime pagine di “Un anno sull’Altipiano” racconta la marcia per giungere nella zona dei Monti Spill, Fior e Castelgomberto: in pratica la corona est dell’Altopiano. Oggi si sale comodamente percorrendo la strada da Valstagna a Foza. La strada fu realizzata durante la Prima Guerra Mondiale, a tappe forzate, con manodopera locale e anche minorile. Valstagna-Foza è da quasi cinquant’anni anche una storica Prova Speciale dei rallies che vengono organizzati nella zona, primo tra tutti quello di San Martino di Castrozza. Ma noi, giunti sull’Altopiano, ci spostiamo verso ovest, passiamo nelle vicinanze dell’aeroporto di Asiago (da queste parti abitava Mario Rigoni Stern) e ci inoltriamo nel bosco verso Malga Zebio.

Avevo visto foreste fitte e rigogliose, temo che Vaia abbia fatto un disastro. Si può lasciare l’auto e salire attraverso il sentiero nel bosco, chissà se oggi è ancora agibile o se è ostruito dai tronchi sradicati. Si può procedere sullo sterrato se si utilizza un’automobile agile e altina. Lo Zebio sembra un panettoncino verde: si può passeggiare tutt’attorno guardando le trincee e la montagna tutta scavata. Inespugnabile. Infatti inespugnata. E gli assalti furono molti. Tutti vani. Tutti sanguinosi. In breve cammino si giunge in una zona fitta di trincee vicinissime le une alle altre: in qualche punto meno di dieci metri. Quando avvenne una esplosione accidentale gli uni raccolsero i cadaveri degli altri.

Si entra nel bosco e si giunge al cimitero della Brigata Sassari: verde, silenzioso, raccolto. Scorro i nomi: soldatini sardi piccolini, valorosi e agili, “i diavoli rossi” temuti dal nemico anche perché insidiosissimi nel corpo a corpo. Venuti a morire quassù. Il Monte Zebio è in pratica la parte sud dello scenario della Battaglia dell’Ortigara che si vede là in fondo a nord, poco a destra è la Cima Caldiera. Scesi dallo Zebio alla Malga, che è proprio lì, davvero due passi, ci si rifocilla con formaggi di tre stagionature, soppressa, polenta abbrustolita, il tutto innaffiato da un cabernet leggero che va giù come con l’imbuto. Il burro ben incartato è ancora solido e compatto quando arrivo a Milano. Sapore intenso di panna e profumo di fiori.

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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