Qui di seguito, la quinta puntata della serie di articoli che il nostro editore Riccardo Rossotto, apprezzato storico, ha dedicato al terrorismo in Italia negli anni di piombo. Articoli tratti dal podcast dello stesso autore.

Milo Goj

 

Nel 1976, lo Stato portò a processo Torino il nucleo storico delle Brigate Rosse di cui facevano parte Renato Curcio, Alberto Franceschini e altri. Fu un processo lungo e tormentato, segnato da difficoltà, tensioni e minacce, fuori e dentro il tribunale. Nell’aula bunker, i brigatisti storici ricusarono giuria e avvocati e rivendicarono e sostennero le azioni terroristiche compiute dalle nuove Br, un crescendo di attentati a uomini delle forze dell’ordine, giornalisti, dirigenti e lavoratori dell’industria. Un processo sospeso e ripreso più volte che si concluse oltre due anni dopo, con la prima, vera vittoria dello Stato sulle Brigate Rosse.

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Franco Amato (“FA”). Il primo processo alle BR iniziò lunedì 17 maggio 1976, nell’aula del Tribunale della corte d’Assise di Torino.

Gli imputati erano ventitré, ma in aula se ne presentò la metà. C’erano Renato Curcio, Alberto Franceschini, Alfredo Bonavita, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e altri che, in piedi, salutarono con il pugno chiuso sinistro levato in segno di sfida allo Stato. Le Brigate rosse quel processo non lo volevano. Per loro Torino era un nodo politico e strategico: la città culla di quella classe operaia – 60 mila operai solo a Mirafiori – cui le Brigate rosse si rivolgevano per formare l’avanguardia rivoluzionaria e reclutare “fiancheggiatori e combattenti”.

Le Brigate Rosse volevano “mestare” nella crisi economica e politica del Paese alla vigilia delle elezioni nazionali del 20 giugno, dove si confrontavano DC e Pci. La formazione della giuria popolare fu un calvario di rinunce, ben 134! con vari pretesti. Il giudice Giancarlo Caselli, che aveva presidiato l’istruttoria insieme con il Procuratore capo di Torino Bruno Caccia, “Attorno alle Br era cresciuto un alone di indifferenza, o quasi, nonostante la temerarietà delle loro azioni.”.

Ma le persone chiamate a comporre la giuria avevano anche paura. Riavvio del processo che avvenne grazie anche all’esempio di Adelaide Aglietta, torinese, all’epoca segretaria del Partito radicale, sorteggiata come giudice popolare, che e ha raccontato la sua esperienza in un libro con un linguaggio sobrio e diretto, senza nascondere le paure che l’attanagliavano di fronte alle esplicite minacce alla sua vita. Quel 17 maggio del 1976, il processo si aprì e le BR puntarono subito allo slittamento dei tempi del dibattimento per provocare la reazione aggressiva dello Stato durante il processo e attaccarlo. Gli imputati contestarono gli avvocati, che a loro volta sostennero “l’inopportunità di celebrare il processo in campagna elettorale”.

Alla prima udienza, Maurizio Ferrari, il compagno “Mao”, incaricato dei compagni di leggere i proclami dalla gabbia nell’aula di corte d’assise, annunciava: “Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista, brigate rosse e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo, gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori, hanno da difendere la pratica criminale, antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se i difensori dunque devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò i nostri avvocati il mandato per la difesa e li invitiamo nel caso fossero nominati d’ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale, e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d’ordine: portare l’attacco al cuore dello Stato”.

Non si era mai sentito nella storia giudiziaria italiana un proclama così forte contro lo Stato. La ricusazione dei difensori aveva spiazzato i giudici suscitando polemiche e accuse di forzature. Il meccanismo del processo era in crisi. Il risultato fu quello voluto dai terroristi: il processo si fermò per impossibilità di garantire la difesa ai brigatisti. fino a quando il presidente della corte, Guido barbaro non incaricò della difesa d’ufficio il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati, Fulvio Croce, come prevedeva l’allora codice di procedura penale nel caso di impossibilità di reperire altro difensore.

Croce accettò l’incarico e scelse gli altri difensori tra i consiglieri del suo ordine. Il 7 giugno 1976 fu sollevato un problema di incostituzionalità della norma del codice di procedura penale che imponeva la obbligatorietà della difesa tecnica anche per l’imputato che la rifiutava. E l’8 giugno sul processo piombò la notizia dell’uccisione del procuratore capo di Genova Francesco Coco. “Siamo stati noi” dissero Curcio e compagni, che avevano ritrovato il ruolo di protagonisti. Il dibattimento fu rinviato al 16 settembre e da lì all’anno successivo, il 1977.

Riccardo Rossotto (“RR”): Dall’inizio del processo l’attività delle Brigate Rosse aumentò costantemente, grazie alla migliorata struttura organizzativa e logistica, all’afflusso di nuovi militanti e alla costituzione di colonne molto attive a Genova e Roma. Inoltre, il 3 gennaio 1977 Prospero Gallinari riuscì ad evadere dal carcere di Treviso   e riprese la militanza attiva nelle Brigate Rosse.

Poi, il 28 aprile 1977, un nucleo diretto da Rocco Micaletto, uccise Fulvio Croce, Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino. Croce venne assassinato nell’androne del suo ufficio da un nucleo di fuoco delle Brigate Rosse, che rivendicarono subito nell’aula l’attentato. Così il processo fu di nuovo sospeso e rinviato, anche per l’impossibilità di reperire i giudici popolari che, a maggioranza, avevano mandato certificati medici che giustificavano la loro indisponibilità a prendere parte al processo. Il rinvio rappresentava la subdola vittoria della strategia delle brigate rosse: un attacco al cuore dello Stato e alla sua giurisdizione.

FA: Dopo Croce, gli attentati proseguirono, ancora più spietati. Tra i tanti attentati quello del 7 giugno 1977, quando un appartenente alla colonna brigatista Walter Alasia gambizzò Fausto Silini, caporeparto alla Breda, responsabile del trasferimento di mansioni di 30 operai.

Anche i giornalisti diventarono bersaglio dei brigatisti: il 1º giugno 1977 venne ferito a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore de Il Secolo XIX il 2 giugno, a Milano fu la volta di Indro Montanelli; il 3 giugno, fu gambizzato a Roma Emilio Rossi, direttore del TG1. E nei mesi successivi furono feriti altri giornalisti, tra cui a Torino Nino Ferrero dell’Unità, colpito da militanti di Azione rivoluzionaria. Intanto le Br e le altre formazioni terroristiche continuavano a reclutare fiancheggiatori e militanti nelle file del Movimento del ’77.

RR: Il Movimento del ‘77 fu per diversi aspetti più radicale di quello del ’68: era composto in larga parte da studenti e dipendenti scolastici, ma aveva al suo interno tanti filoni: gli indiani metropolitani, il movimento femminista, l’area cosiddetta creativa, i militanti di Lotta Continua e delle altre organizzazioni di sinistra.

Organizzavano proteste più o meno violente ovunque e la presenza “discreta” delle Br e di Prima linea ad ogni sfilata studentesca, insieme al radicalizzarsi estremo delle rivendicazioni, dei mezzi di protesta e di lotte, finirono nell’arco di pochi mesi con indebolire fortemente il movimento. Due gli episodi che meritano di essere ricordati tra i tanti: il primo fu la “cacciata” di Luciano Lama, il 17 febbraio 1977, dall’Università di Roma, segno dell’incomprensione, del disprezzo e dell’incomunicabilità che opposero il movimento giovanile da una parte, il Pci e i sindacati dall’altra.

Il secondo, tragico, episodio avvenne a Milano: nel corso di una manifestazione organizzata da gruppi della sinistra extraparlamentare per protestare contro l’uccisione di Giorgiana Masi, il brigadiere Antonio Custra, mentre fronteggiava in via De Amicis a Milano un consistente numero di dimostranti, fu colpito mortalmente al volto da uno dei proiettili esplosi dagli “Autonomi”. L’assassinio, fu immortalato da una tragicamente nota fotografia che riprendeva un uomo mentre sparava ad altezza uomo: lo sparatore era Giuseppe Memeo. Furono condannati per concorso in omicidio anche Mario Ferrandi (che entrò poi in Prima Linea) e Walter Grecchi per concorso morale.

FA: Poi ci fu il grande raduno di Bologna, il cosiddetto convegno nazionale sulla repressione organizzato a Bologna tra il 23 e il 25 settembre ‘77 che vide riunite tutte le anime del Movimento. Bologna segnò la fine del Movimento per l’impossibilità di conciliare le diverse componenti e a fronte dell’aperta ostilità dei gruppi dell’autonomia, soprattutto romana, di accettare una qualsiasi partecipazione delle donne e dei “creativi”.

Il raduno si concluse senza scontri, ma dopo Bologna, ripresero, aumentò il livello di conflittualità̀ che assunse il simbolo della P38 e molti esponenti del Movimento finirono per aderire alle organizzazioni terroristiche. E fu così che, mentre a Torino il primo processo alle BR procedeva a singhiozzo, la violenza terrorista raggiunse punte senza precedenti.

RR: Il 16 novembre 1977, a Torino, venne gravemente ferito Carlo Casalegno, giornalista vicedirettore della Stampa, che morì dopo tredici giorni di agonia. A sparare fu Raffaele Fiore, capo della colonna torinese, con l’appoggio di Patrizio Peci e di altri due brigatisti. Un omicidio rivendicato come risposta ai “suicidi” degli esponenti della Raf nel carcere di Stammheim di cui abbiamo già parlato.

Il 17 novembre, a Genova venne seriamente ferito Carlo Castellaneta, dirigente del gruppo Ansaldo considerato troppo “Berlingueriano”. Gli omicidi continuarono nel 1978: il 14 febbraio 1978 fu ucciso Riccardo Palma, magistrato addetto alla direzione generale degli istituti di prevenzione e pena; l’11 aprile 1978 venne ucciso Lorenzo Cotugno, agente di custodia presso il carcere Le Nuove di Torino. E il 10 marzo 1978 le BR uccisero a Torino Rosario Berardi maresciallo di polizia dell’antiterrorismo, in relazione alla riapertura quel giorno del processo di Torino alle Brigate Rosse. Poi nel processo irrompe il sequestro di Aldo Moro.

La notizia del sequestro giunse mentre il processo si muoveva faticosamente attraverso formalità procedurali e scatenò un battibecco tra il pubblico ministero Luigi Moschella e i brigatisti. Quando il primo disse ai brigatisti: “Siete una banda…”, Franceschini e Curcio lo interruppero immediatamente proclamando: “Si, una banda che ha in mano Moro e che farà il processo alla Democrazia cristiana e a tutta la classe politica italiana. Il processo si farà comunque e da ben altra parte e sarà molto serio. Moro è nelle mani del proletariato e con lui è processato tutto lo stato“. Fu un parallelismo assurdo e senza precedenti nella storia della democrazia italiana: nel covo di Roma Mario Moretti “processavano” il Presidente Moro e lo Stato – e nell’aula di Torino lo Stato processava le Brigate Rosse.

Il 21 giugno 1978, a Genova, le BR uccisero Antonio Esposito, funzionario dell’Antiterrorismo, un attentato che coincise con l’entrata in camera di consiglio dei giudici del processo di Torino. Il primo, surreale processo, quello al leader democristiano, si concluse con la condanna a morte di Moro, mentre il Presidente Barbaro, tra mille difficoltà, portò a conclusione il vero e legittimo processo il 23 giugno 1978, con la condanna dei 29 imputati a pene varianti tra i 10 e i 15 anni e anche con 15 assoluzioni. Lo Stato aveva vinto la sua battaglia: i brigatisti erano stati processati e condannati con una sentenza non vendicativa ma perfettamente in linea con i principi dell’ordinamento. Il sacrificio di Croce non era stato inutile. Oggi può sembrare retorico, ma va detto con chiarezza: la democrazia prevalse e, forse, cominciò il declino politico delle Br.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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