Ci risiamo. Sembra di rileggere un copione già visto e conosciuto. 74 anni dopo, la data del 25 aprile non smette di segnare la dialettica politica. Le contrapposizioni anche strumentali.

Ogni anno, il nostro curioso e zoppicante Paese invece di cercare motivi unificanti, si divide. Ritornano sulle prime pagine dei giornali polemiche vecchie, stucchevoli. Quelli che dovrebbero rappresentare degli esempi istituzionali a cui riferirsi per rivisitare e conoscere pagine dolorose, tragiche, ma anche rivoluzionarie della Storia relativamente recente del nostro Paese, con uno spirito diverso, danno il peggio di se stessi.

Quest’anno, ad esempio, con anticipo rispetto alla data fatidica, Salvini ha preannunciato che non parteciperà “a nessuna sfilata”, non volendo entrare in un dibattito vecchio e inutile; Di Maio, da parte sua, ha dichiarato che starà “dalla parte dei partigiani, festeggiando perché è un giorno importante per la nostra Storia”.

Intendiamoci, le guerre civili, in ogni paese del mondo, hanno lasciato ferite non cicatrizzabili. Quando i padri rischiano di sparare ai propri figli o, addirittura, lo fanno, la tragedia diventa incancellabile. Lo scontro militare, armato, violento, tra cittadini della stessa nazione, al di là dei progetti politici giusti o sbagliati (e nel caso italiano non ci devono essere dubbi su chi stesse dalla parte sbagliata), lascia nei vinti e nei vincitori stati d’animo, passioni, rancori, voglie di riscatto, ma anche di vendetta, che non sono gestibili razionalmente con il distacco ed il cinismo di “chi non c’era”.

Lo scontro politico, fisico, militare, ha coinvolto talmente i protagonisti delle due parti che non è facilmente archiviabile. Le ruggini, le storie, anche quelle del dopoguerra, hanno incrostato per sempre le vite di “chi c’era”, di “chi vi ha partecipato”.

Fissato tale punto, ha ancora un senso ricordare pubblicamente quel 25 aprile del 1945? Portarne avanti la memoria, il significato, il ruolo avuto anche nella nostra successiva storia democratica e repubblicana?

Oggi i testimoni se ne sono andati quasi tutti. Salvo qualche sopravvissuto “centenario”, a partecipare a questa ricorrenza ci siamo noi, quelli che quella storia l’hanno letta ed ascoltata. Non vissuta. Il tema, personalmente, lo conosco bene. L’ho studiato, approfondito e sviscerato in tanti anni di letture, di ascolto dei protagonisti di allora, di confronto con i rappresentanti delle posizioni anche più fondamentaliste in campo. In più l’ho vissuto in diretta fin da quando, diventato adolescente, iniziai a sentire dei racconti in famiglia di genitori o parenti che fecero scelte diverse in quel tragico e confuso settembre del 1943.

Ebbene la risposta all’interrogativo iniziale di questa riflessione è forte, chiara, precisa e senza tentennamenti: SI’!

Ha ancora un senso considerare il 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra storia patria: a maggior ragione oggi quando i sopravvissuti e i testimoni sono rimasti pochi e quindi rare sono le testimonianze dirette, non contaminate o manipolate da interessi di parte. Soprattutto oggi anche perché le nuove generazioni sappiano cosa è accaduto in Italia in quegli anni e perché sia importante celebrare la Liberazione, non solo nel nostro paese, dalle dittature imperanti in quei drammatici anni a metà del secolo scorso.

Proprio due anni fa in occasione di uno dei tanti 25 aprile che ho raccontato in diverse conferenze pubbliche, tratteggiavo alcuni aspetti di questa tematica.

Quella Liberazione, al di là del contributo certo risolutivo degli eserciti alleati, fu possibile anche grazie al supporto attivo e generoso di parte della popolazione civile italiana che aiutò, rischiando la pelle, gli anglo-americani a sconfiggere il nemico. Quegli uomini e quelle donne, al di là della loro fede politica, a volte diversa o addirittura contrapposta, erano mossi da ideali comuni, alti, etici e solenni: la riconquista della libertà e della democrazia dopo gli anni dell’oscurantismo fascista.

Il senso della patria, lo sprezzo del pericolo, il coraggio personale si coniugavano con la volontà di mettere fine ad un regime che aveva portato il paese alla rovina fisica e psicologica.

Sul contenuto del progetto politico della Resistenza e della Liberazione non credo, come detto, ci debbano essere o residuare ancora dei dubbi. Per dirla con una sintesi ereditata dai film western americani, chi fossero i Buoni e chi i Cattivi non è in discussione. Il tema è un altro: più spinoso e controverso. Non ancora metabolizzato unanimemente. Ogni progetto politico per diventare realtà ha bisogno delle gambe degli esseri umani. Ha bisogno di essere declinato nella quotidianità per non rimanere un’utopia astratta. E quando gli esseri umani diventano i protagonisti della attuazione concreta di un progetto politico alto, la storia dell’umanità ci insegna che nascono le interpretazioni, le visioni, gli obiettivi tattici diversi. Ognuno, anche presupponendo l’onestà intellettuale di tutti e quindi la loro buona fede (cosa già di per sé è statisticamente difficile per non dire impossibile) pensa, decide e agisce secondo coscienza o secondo i propri soggettivi modi di interpretazione del progetto politico alto e condiviso con tutti in astratto. In più, e il tema si complica ulteriormente, la storia di questa attuazione del progetto politico la scrivono poi i vincitori, gli stessi esseri umani, ciascuno con le proprie idee in merito ai fatti che sceglie di raccontare. E allora quel progetto politico “alto ed etico” inizia ad essere narrato su diversi piani, con diverse finalità, mischiando fatti oggettivi a opinioni soggettive. Costruendo un “frullato” narrativo non più rispondente alla sola e unica motivazione della miglior conoscenza di cosa accadde. Ma rispondente invece a cosa si vuole che passi come l’unica verità di quell’evento e della sua ricostruzione postuma. La cosiddetta vulgata storica fortemente contestata dallo storico De Felice, il primo che cercò di aprire gli armadi con gli scheletri di quella storia.

E’ ormai un dato riconosciuto da molti, autorevoli cultori della materia che la Guerra Civile che segnò drammaticamente quasi venti mesi della nostra storia patria (dal settembre del 1943, data dell’armistizio con gli alleati, all’aprile del 1945, data della Liberazione, appunto), nel ventennio successivo, fino agli anni ’60 dunque, fu raccontata e quasi monopolizzata da autori interessati non tanto alla ricostruzione e glorificazione delle imprese dei vincitori, ma soprattutto di una parte specifica degli stessi. La politica, fin dal 1945 ci mise “il cappello” su questa narrazione determinante per cristallizzare chi fosse stato decisivo nel conseguire la vittoria finale al termine della guerra e per giocarsi meglio la sfida politica appunto. Gli ideali alti e profondi del movimento partigiano furono contaminati, in questo modo, dagli obiettivi politici degli autori, consolidando una rilettura dell’accaduto di parte, in molti casi non solo contestata ovviamente dagli sconfitti, ma anche dagli stessi vincitori … dimenticati o comunque marginalizzati nella rievocazione. Questa miope impostazione storico-letteraria nel medio-lungo termine ha scatenato una reazione uguale e contraria. Dallo sdoganamento del termine Guerra Civile, operato agli inizi degli anni ’90 dallo storico di sinistra Claudio Pavone, recentemente scomparso, si sono via via consolidati i filoni, cosiddetti revisionisti, culminati con la serie di libri, di grandissimo successo editoriale, di Gianpaolo Pansa, mirati a raccontare quella parte della storia della Resistenza, in quei venti mesi di Guerra Civile, rimasta come la polvere sotto i tappeti per oltre cinquant’anni. La ricostruzione della storia dei vinti ha riaperto antiche ferite politiche e psicologiche mai cicatrizzate e rimaste per decenni nella penombra dell’oblio e dell’astio trattenuto. Anche in questo caso, salvo rari esempi di serena rilettura degli accadimenti, il pendolo è oscillato dall’altra parte, riproducendo partigianerie, visioni monodirezionali, ricostruzioni contaminate dalla voglia, passione e ambizione di raccontare finalmente “l’altra storia”, quella vera con la V maiuscola.

Un disastro educativo e culturale insomma che può spiegare come mai siamo ancora “fermi lì” a confrontarci su una tragedia oggettiva quale è sempre una Guerra Civile per un paese. Un momento storico che taglia in due non solo la nazione ma anche le famiglie, i cittadini. Costringe i padri a imbracciare i fucili contro i figli e viceversa. I fratelli contro i fratelli, le generazioni contro le generazioni. Una catastrofe umana e psicologica che assume spesso toni feroci ed efferati, che non solo in Italia necessita e ha necessitato di decenni per essere metabolizzata, compresa, ricostruita e riletta senza lo stomaco dell’attualità o il tifo di parte di una curva da stadio.

Come giustamente ha scritto Gianni Oliva in un suo testo su quel periodo storico, un conto è parlare del progetto politico “a monte”, quello che divide le parti in campo. Su questo punto non ci devono essere né i SE né i MA. Non ci devono essere dubbi su quelli che scelsero la parte giusta e non quella sbagliata delle efferate dittature nazi-fasciste. Diverso è invece il ragionamento che affronta le difficili scelte personali di quegli esseri umani che in quei mesi dovettero decidere da che parte stare. In quel momento giocarono fattori diversi, anche banalmente geografici nel senso del “dove” si trovavano gli italiani in quei mesi del ’43-’44. Al sud il problema non si pose in quanto il territorio era già stato occupato dagli alleati. Il problema si concentrò quindi al nord dove, per le ragioni più svariate, gli uomini e le donne furono costretti a schierarsi. Molti stettero “alla finestra” conseguenza questa del “tutti a casa” ben sintetizzato nel famoso film di Monicelli. Quelli che andarono in montagna, pochi per la verità soprattutto fino ad almeno la metà del 1944, capirono subito che la parte giusta era quella che combatteva il nazi-fascismo in ogni dove. Quelli che scelsero invece di andare a Salò lo fecero per i motivi più svariati come si ricava dalle loro stesse testimonianze rese nel dopoguerra. Ci furono i fanatici fascisti convinti del loro progetto politico; ci furono i giovani ventenni che reagirono in quel modo alla vergognosa gestione dell’armistizio del settembre del ’43, ci furono quelli che pensarono, in buona fede, che l’onore dell’Italia bisognasse difenderlo mantenendo la parola data all’alleato tedesco. Insomma un crogiuolo di sentimenti, decisioni, pensieri difficilmente razionalizzabile soprattutto a distanza di anni e lontani dal tragico contesto sociale ed economico di quell’estate del ’43.

Chiarito tale ragionamento, crediamo che la nostra responsabilità dovrebbe essere duplice: da un lato fare in modo che quella data del 25 aprile del 1945 non sia più contaminata dalla politica o dagli scenari internazionali: rimanga per sempre una data fondamentale per il nostro paese nella riconquista della libertà e della democrazia. Bisogna continuare a conservare infatti la memoria di coloro che diedero la vita per la libertà di noi tutti. Dall’altro lato dobbiamo tutti costringerci ad una più serena rilettura di quel periodo. Non condizionati dal doverci schierare da una parte o dall’altra, ma nel doverci porre nella condizione di capire meglio cosa successe e perché. E questo noi lo dobbiamo soprattutto alle nuove generazioni quando ci chiedono notizie dei loro nonni o bisnonni e del perché delle loro scelte in quella difficilissima situazione. Non bisogna dimenticare ma neanche arroccarsi su contrapposizioni che non hanno più senso e che non aiutano a comprendere veramente quel contesto storico e politico.

Pietro Scoppola, lo storico ricordato proprio in questi giorni da Umberto Gentiloni su La Repubblica, nel 1995 in occasione dell’anniversario dei primi 50 anni della Festa della Liberazione scrisse: “L’idea di trovare nel 25 aprile, e in ciò che significa, il fondamento di una storia comune non annulla i contrasti e neppure il persistere di differenti sentimenti e interpretazioni della storia nazionale, ma vuole essere antidoto a quella mentalità del processo al passato che avvelena la vita politica e culturale italiana”.

24 anni dopo la riflessione di Pietro Scoppola (25 aprile. Liberazione”, Einaudi Editore) è quanto mai di attualità.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *