L’8 settembre 1943 venne reso pubblico in tutta Italia il testo dell’armistizio “corto” che era stato firmato cinque giorni prima a Cassibile (Siracusa) tra il generale Castellano delegato del re Vittorio Emanuele III e il generale Bedell Smith plenipotenziario degli Alleati, che poneva fine, con la resa incondizionata dell’Italia, al conflitto fra di loro a all’alleanza dell’Italia con la Germania.

Al momento dell’armistizio i militari italiani alle armi erano poco più di 2 milioni dislocati nel territorio metropolitano e all’estero (Francia, Balcani, isole dell’Egeo, Grecia, Albania): di questi 1.007.000 furono catturati dai tedeschi (456mila nei Balcani, 172mila nelle isole dell’Egeo, 58mila in Francia e 321mila in Italia). In Italia i nostri militari vennero fatti prigionieri nel corso dell’”Operazione Achse” (Asse) che era stata predisposta da Hitler in previsione dell’armistizio italiano e riguardava l’occupazione militare della penisola e la neutralizzazione delle Forze armate italiane ad opera della Wehrmacht. Allo scopo erano state inviate in Italia 17 divisioni (di cui 7 corazzate) al comando del Feldmarschall Albert Kesserling, le quali riuscirono a disarmare, entro il 18 settembre, quasi tutti i militari italiani e ad inviarli, per ferrovia, su vagoni merci, in Germania ove vennero rinchiusi in “Durchsgangslager” (Campi di transito), immatricolati e classificati. Gli ufficiali furono inviati in uno dei 6 campi (“Offizierslager”) loro destinati nella Polonia occupata   (“ Generalgouvernement”) e i militari di truppa in uno dei 18 campi (“Mannschaftsstamlager”) allestiti in Russia, Polonia, Francia e Germania. Giunti nei rispettivi campi, i militari italiani vennero posti di fronte a una scelta estremamente difficile: continuare a combattere a fianco dei camerati tedeschi contro gli Alleati nelle file delle Waffen SS (SS combattenti) o della neocostituita Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) oppure rifiutare tale possibilità ed essere considerati prigionieri del Reich. 94mila militari (fra cui 21mila ufficiali) aderirono alla prima opzione e firmarono il Modulo di adesione alla R.S.I.; 23mila uomini vennero arruolati nelle file delle Waffen SS (SS combattenti); 62mila andarono a formare le quattro cosiddette “Divisioni Graziani” della R.S.I. (1^ Divisione Bersaglieri d’Italia, 2^ Divisione Granatieri Littorio, 3^ Divisione Fanteria San Marco, 4^ Divisione Alpina Monterosa) e 9mila vennero arruolati nei servizi ausiliari della Wehrmacht e della Luftwaffe.

I restanti 913mila militari italiani rifiutarono tale adesione a causa dei trattamenti umilianti sino ad allora subiti e della diffidenza verso i tedeschi e gli ufficiali anche perché si sentivano maggiormente legati al giuramento di fedeltà prestato al re al momento della nomina. Tutti costoro vennero posti sotto la giurisdizione dell’O.K.W. (“Oberkommando Wehrmacht”, Comando supremo dell’Esercito) come P.O.W. (“Prisoners of War”- Prigionieri di guerra) in quanto nemici, appartenenti, al momento, alle Forze armate di uno Stato – l’Italia badogliana – contro il quale la Germania, in seguito all’armistizio italiano, si trovava in guerra. Quando, il 23 settembre, Mussolini istituì la R.S.I. alleata della Germania, i militari italiani non potevano più essere considerati nemici, ma neppure potevano essere considerati alleati poiché non avevano aderito allo Stato fascista neocostituito.

Fu Hitler in persona che trovò per loro una diversa denominazione, non contemplata da alcun Codice militare, classificandoli “Italienische Militar Internierte” (Internati Militari Italiani – I.M.I.) e privandoli dei diritti previsti per i P.O.W. dai Trattati internazionali. Gli “Offizierslager” erano solitamente caserme abbandonate, con camerate sino a 20 letti, riscaldate, e agli ufficiali prigionieri venivano forniti vitto adeguato, medicinali e anche generi di conforto (sigarette), tutto tuttavia sotto una rigida sorveglianza e disciplina. I “Mannschaftsstammlager” erano invece squallide baracche, senza servizi igienici, con una sola stufa per baracca, e ospitavano, stipati,  sino 100 individui ciascuna. A ogni soldato erano forniti un pagliericcio e una coperta, razioni alimentari scarse e la quantità di cibo a ciascuno destinata era subordinata al suo “Leistungsernaehrung” (Rendimento lavorativo): a tutti, ufficiali e truppa, erano state lasciate, come abbigliamento, le rispettive divise, spesso lacere o consunte, con gravi disagi per coloro che erano stati catturati nelle isole, in Grecia o nei Balcani, poiché le divise estive in loro dotazione non potevano proteggerli dal freddo dell’autunno germanico. La disciplina era esercitata dai militari della Wehrmacht , assai rigida anche se meno feroce di quella esercitata dalle SS nei “Koncentrationslager” La quasi totalità degli I.M.I. di truppa furono inviati al lavoro in industrie belliche (25%), meccaniche (31%), in miniere (28%), nel campo della edilizia (10%) e dell’agricoltura (6%) con orari di lavoro massacranti di 10/12 ore al giorno e punizioni corporali in casi di insubordinazione o scarso “Leistungsernaehrung”. Questo insieme di situazioni indusse, ai primi di ottobre, altri 103mila militari ad aderire alla R.S.I.: 8mila vennero arruolati come ausiliari nelle file delle Waffen SS e 95mila vennero inviati a completare le “Divisioni Graziani”, così che, a tale data, gli I.M.I. detenuti risultavano essere 810mila In quel periodo cominciarono a essere immessi nei “Mannschaftsstamlager”, provenienti a marce forzate dai lager della Russia e della Polonia, gli internati italiani che erano stati evacuati sotto la pressione dell’avanzata della Armata Rossa. Contemporaneamente cominciarono a manifestarsi, fra tutti gli I.M.I., casi di polmonite, tifo, pleurite, tubercolosi e stati di prostrazione e grave malnutrizione con conseguente diminuzione della loro “Leistungsernaehung” e notevole danno delle ditte interessate che aumentarono il carico di lavoro agli immuni sempre più oppressi.

Notizie su questa situazione sempre più drammatica per gli I.M.I. giunsero, all’inizio del 1944, al Governo fascista che, sino ad allora, li aveva completamente ignorati. Fu allora che Mussolini inviò dapprima suo figlio Vittorio e successivamente l’Ambasciatore a Berlino Filippo Anfuso e il Ministro della Difesa Rodolfo Graziani presso il Responsabile del Servizio del Lavoro tedesco   Konstantin Hierl allo scopo di ottenere miglioramenti nelle condizioni di vita per gli I.M.I., senza peraltro alcun successo. Allora fu lo stesso Duce a intervenire presso Hitler nel luglio 1944 ottenendone la promessa di miglioramenti per le condizioni di vita degli I.M.I. Analoghi miglioramenti erano stati richiesti al Fuhrer dal “Ruestungsminister” (Ministro per gli a r m a m e n t i ) A l b e r t S p e e r e d a l “ G e n e r a l b e v o l l m a e c h t i g t e r f u r d e n Arbeitseinsatz” (Plenipotenziario per la mobilitazione al lavoro) Fritz Saukel nell’intento di ottenere una maggior collaborazione parte degli internati. A seguito di tali sollecitazioni, il 1 settembre Hitler dispose che gli I.M.I. passassero dalla competenza militare dell’ O.K.W. a quella civile del D.A.F. (Deutsche Arbeit Front, Fronte tedesco del lavoro) con la qualifica di “Zivilauslaenderarbeiter” (Lavoratori civili stranieri) sottoposti al controllo della “Wolkssturmverbaender” (Milizia popolare di controllo) che si comportò in modo per lo più corretto verso gli italiani.

Onde ottenere dai lavoratori italiani la maggior collaborazione possibile, necessaria all’industria tedesca sottoposta al maggior sforzo produttivo nel momento cruciale della guerra, ai militari italiani vennero forniti nuovi abbigliamenti, vitto adeguato, alloggiamenti confortevoli, assistenza sanitaria e un modesto salario in un regime di relativa libertà controllata. Contemporaneamente venne loro permesso di ricevere dall’Italia – tramite la S.A.I. (Società degli Agricoltori Italiani) -, pacchi di generi alimentari e vestiario che resero la loro vita alquanto migliore. Con la fine della Seconda guerra mondiale in Europa, i lavoratori italiani furono liberati dagli Alleati tra il maggio e il giugno 1944 e inviati in Italia. Durante l’internamento erano deceduti 42.720 uomini, di cui 2.815 ufficiali e 39.905 militari di truppa (di questi 8mila per le pesanti condizioni di lavoro e infortuni, 29mila per malattie e denutrizione, 2.400 sotto i bombardamenti alleati e 506 fucilati per ribellione o indisciplina).

Gli I.M.I. che rientrarono in Italia entro il 1946 furono complessivamente 777.280 dei quali 660mila rimpatriati dagli Angloamericani e 32mila dai Russi e 85.280 erano giunti da soli, a piedi o con mezzi di fortuna. Il rimpatrio e il reinserimento di questi reduci nel contesto della realtà italiana del momento avvennero spesso con difficoltà: essi vennero accusati di esser stati causa della disfatta dell’8 settembre, di esser stati opportunisti, di aver preferito la prigionia al combattimento, di aver collaborato con i tedeschi e furono pertanto costretti al silenzio sulle drammatiche vicende vissute e sulla loro “resistenza senz’armi” che era stata pagata con migliaia di morti. Solo a Padova, nel quartiere Terranegra, nel 1953, si era iniziato a costruire il Tempio nazionale dell’Internato ignoto, ma fu soltanto verso la fine degli anni ottanta che le storie drammatiche degli I.M.I. cominciarono ad essere considerate in una prospettiva diversa e la loro odissea venne, a poco a poco, riconosciuta come valido contributo alla lotta contro il nazifascismo. Nel settembre 1999 una Medaglia d’oro al Valor militare fu conferita dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro all’ “Internato ignoto” e, nell’ottobre 2006, una Medaglia d’onore venne concessa dal presidente Giorgio Napolitano a tutti gli italiani che furono internati nei lager nazisti dal 1943 al 1945. Nel 2009, a seguito di accordi intercorsi fra i ministri degli Esteri italiano Franco Frattini (Governo Berlusconi) e quello tedesco Frank Walter Steinmeier (Governo Merkler) vennero intraprese ricerche di italiani morti e sepolti nelle zone ove erano stati installati i lager per I.M.I. e , sinora, oltre 300 salme sono state rinvenute a Zeithan (Dresda), Khala (Turingia) e Koselitz e Groeditz (Sassonia) .

Gustavo Ottolenghi

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