L’epoca che ci troviamo ad abitare può essere descritta, con sempre maggiore evidenza, come post-ideologica. Non nel senso che le ideologie siano state superate in una fase di maturità della coscienza collettiva, ma piuttosto nel senso che sono state rimosse, smontate, svuotate del loro potere ordinatore. Le grandi narrazioni novecentesche — il marxismo, il liberalismo, il cristianesimo sociale, il nazionalismo — si sono frantumate, lasciando il campo a un orizzonte dove la libertà individuale coincide sempre più con l’arbitrio, e dove l’unico valore condiviso sembra essere il rifiuto di ogni valore totalizzante.

Questa transizione ha avuto radici complesse, che affondano nella reazione ai drammi del XX secolo. Le ideologie, che per un lungo tratto avevano rappresentato visioni del mondo capaci di mobilitare, ispirare, dare forma al conflitto e alla speranza, sono state anche le matrici di violenze inaudite, di regimi oppressivi, di guerre mondiali. Il sospetto verso ogni forma di pensiero “forte” è stato dunque il frutto di un’esigenza: evitare che l’idea di verità potesse nuovamente fondare pratiche di dominio. In questo clima culturale ha trovato terreno fertile la prospettiva epistemologica di Karl Popper, per il quale la verità non può mai essere affermata in positivo, ma solo falsificata, cioè, messa alla prova e contraddetta. In altre parole: non possiamo sapere cosa sia vero, ma solo cosa è sicuramente falso.

Questo spostamento — da una verità affermabile a una verità sempre in fuga — ha prodotto una profonda trasformazione nella struttura simbolica della modernità. Ciò che per secoli aveva sostenuto il pensiero occidentale, ovvero la fiducia nella dicibilità del mondo e nella possibilità di istituire un rapporto solido tra linguaggio e realtà, è entrato in crisi. La coscienza postmoderna ha ereditato questa frattura, declinandola in forme diverse: il relativismo culturale, il nichilismo ermeneutico, l’ironia post-ideologica, l’estetizzazione del politico.

Eppure, come ha scritto Emanuele Severino, questa “follia dell’Occidente” — la convinzione che non esista alcuna verità dicibile — non ha liberato l’uomo, ma lo ha lasciato privo di orientamento. Il venir meno della verità come orizzonte simbolico ha prodotto una “orgia della possibilità”, una moltiplicazione indifferenziata di prospettive, scelte, narrazioni, che non si fondano su alcun criterio di necessità. In questo universo proliferante e privo di gerarchie, tutto è possibile, ma nulla appare davvero significativo. Il mondo ha perso consistenza ontologica prima ancora che morale. E la libertà si è trasformata in spaesamento.

L’uccisione delle ideologie ha finito per coincidere, in molti casi, con l’uccisione delle idee. Perché le idee, per essere tali, hanno bisogno di un contesto condiviso, di una tensione verso il comune, di una vocazione alla trasformazione. La pura opinione, o l’informazione decontestualizzata, non è idea: è scoria cognitiva, rumore di fondo. Manca oggi un pensiero orientativo, capace non tanto di prescrivere soluzioni, quanto di interpretare la realtà e indicare direzioni possibili. Manca, in altri termini, una visione.

Ma a mancare, più radicalmente, è anche il soggetto che un tempo era preposto a tale funzione: l’intellettuale. Figura centrale nel Novecento, l’intellettuale è stato il mediatore tra cultura e politica, tra sapere e società, tra individuo e collettivo. Era l’interprete critico del presente e il progettista di futuri possibili. Ma questa figura si è andata via via dissolvendo, fino a scomparire quasi del tutto dalla scena pubblica.

Crisi dell’intellettuale come individuo, ma anche dell’intellettuale collettivo. La sua crisi coincide storicamente con l’avvento dei cosiddetti “partiti personali”, che hanno segnato la transizione dalla politica ideologica a quella carismatica, individualizzata, performativa. In questo nuovo assetto, la competenza analitica ha lasciato il posto all’efficacia comunicativa; l’autorevolezza si è trasformata in visibilità; l’argomentazione è stata soppiantata dal messaggio breve, emotivo, virale.

La nascita dei partiti personali si inserisce a pieno titolo in questo quadro di impoverimento delle idee, dei programmi e delle prospettive. A essere venuta meno non è soltanto la figura del pensatore pubblico, ma anche l’organismo collettivo capace di canalizzare elaborazione culturale, visione storica e progetto politico. Il partito, inteso come luogo di formazione di una coscienza condivisa e di una visione del mondo, si è trasformato in strumento di legittimazione del leader. L’archetipo di questa mutazione è stato Silvio Berlusconi, il quale, pur partendo dal coinvolgimento di un gruppo di intellettuali liberali — da Urbani a Dotti, da Martino a Pera, fino a Colletti, Adornato e Ferrara — che ambivano a una “rivoluzione liberale”, ha finito per ridurre il partito a contenitore carismatico, a proiezione della propria identità imprenditoriale e mediatica.

Oggi, i partiti sono diventati delle vere e proprie “neo-signore” postmoderne, strutture flessibili e centripete in cui il potere non nasce dal basso, ma si concentra intorno a un individuo. Politici come “capitani di ventura” guidano masse elettorali fluide, spesso disorientate, senza offrire una coerente visione del futuro o un impianto ideologico strutturato. La leadership è ormai performance, l’elettorato un pubblico, la campagna elettorale uno show permanente. Si è passati dalla rappresentanza all’identificazione, dalla delega al culto della personalità. In questo scenario, anche il dissenso ha perso la propria forza dialettica, ridotto a semplice disallineamento retorico o variazione dello stesso format comunicativo.

La scomparsa degli intellettuali ha lasciato un vuoto che è stato colmato da una nuova élite: i tecnologi. Figure del cambiamento per eccellenza, gli innovatori digitali e i progettisti di sistemi hanno preso il posto degli umanisti, non perché abbiano sconfitto le loro idee, ma perché hanno dimostrato una capacità maggiore di intervenire concretamente sul reale. La tecnica ha assunto il ruolo di forza ordinatrice del mondo. Ma essa, come ha ricordato Heidegger, non pensa. Essa calcola, prevede, ottimizza. Non si interroga sul senso, ma sulla funzionalità. La domanda non è più “perché?”, ma “come?”.

In questo quadro, ci troviamo a camminare nel mondo come i ciechi di Bruegel, appoggiati  a figure che non vedono, procediamo a tentoni, senza una rotta né un fine. L’individuo è solo, privo di mediatori simbolici e di mappe culturali, immerso in un flusso di dati che non riesce più a trasformarsi in conoscenza. L’assenza di una vision condivisa da grumi sociali strutturati ha frantumato il tessuto della comunità, lasciando spazio a un pluralismo atomizzato, in cui il legame sociale si riduce alla coesistenza algoritmica su piattaforme digitali.

Eppure, la domanda di senso resiste. Essa riemerge sotto forma di disagio, di nostalgia, di bisogno di orientamento. La crisi dell’intellettuale non è irreversibile, se si è capaci di ripensarne il ruolo. Forse non come guida solitaria o come profeta, ma come mediatore culturale, come artigiano del pensiero, come costruttore di narrazioni che sappiano tenere insieme l’analisi del presente e l’immaginazione del possibile. La sfida che ci attende è quella di inventare una nuova forma di pensiero collettivo, che non ricada nel dogmatismo, ma non rinunci alla progettualità. Un pensiero che non tema la complessità, ma ne faccia il proprio campo di lavoro.

In un’epoca che ha rinunciato all’utopia per paura del fanatismo, il compito della filosofia e della cultura è forse proprio quello di restituire dignità alla domanda di senso, di riaprire il discorso sulla verità non come possesso, ma come tensione. In fondo, come ricordava Hannah Arendt, “la libertà è la facoltà di iniziare”: ed è proprio un nuovo inizio, tra umanesimo e tecnica, quello di cui abbiamo più urgente bisogno.

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è amministratore delegato di Campus (Gruppo Class) e direttore scientifico del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e...

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *