All’ultimo saluto a Francesco, il Papa venuto dalla fine del mondo, erano presenti i leader di quasi tutti i Paesi del mondo, compresi quelli che in vita lo avevano definito “l’imbecille di Roma” e quelli che si erano fatti stampare sulla maglietta “Il mio papa è Benedetto”. Una partecipazione che ha sollevato più interrogativi che consensi. Il dubbio è che si tratti di un’azione più di convenienza che di fede.

La politica sta cercando di appropriarsi della religione per ampliare il consenso? Il quesito è reso ancora più stringente dalla considerazione che tra le due sfere – politica e religione –   si è registrata una crescente tensione nel corso del papato di Francesco, definito “comunista” dal clero più conservatore. Il dubbio che la politica ricorra alla religione in modo strumentale non può che alimentare preoccupazione riguardo alla genuinità del consenso e alla potenziale manipolazione delle credenze e dei valori religiosi per scopi politici. Ma questa non è una novità.

La storia dimostra una lunga e intricata interconnessione tra religione e potere politico in diverse civiltà e culture. Ricordiamo che il cristianesimo guadagnò importanza nella politica romana durante il regno di Costantino il Grande, che ne legalizzò la pratica nell’impero nel 313 d.C. In quel periodo, i cristiani furono anche nominati a cariche governative. Il passaggio da religione perseguitata a religione di stato rivelò un calcolo politico pragmatico. Inizialmente visto come una minaccia all’autorità imperiale, il cristianesimo divenne in seguito uno strumento per unificare e legittimare tale autorità.

La Storia insegna anche che la convenienza politica può portare all’alterazione delle istituzioni religiose.  Quando la Chiesa si rifiutò di concedere l’annullamento del matrimonio di Enrico VIII, questi formò la tradizione anglicana attraverso la Chiesa d’Inghilterra sotto il dominio politico della corona. L’obbedienza al potere ordinato da Dio divenne obbedienza al principe divinamente nominato e l’obbedienza includeva naturalmente la conformità a quella che il principe riteneva essere la vera religione.

Nel corso della storia, le religioni hanno spesso fornito un quadro per l’organizzazione sociale e politica, offrendo codici morali, giustificazioni per il potere e un senso di comunità che i governanti potevano sfruttare. Dalle prime civiltà all’era moderna, la religione è stata una forza potente che ha plasmato le dinamiche del potere politico.

Nelle democrazie liberali moderne, si è affermato il principio della separazione tra Chiesa e Stato. Tuttavia, il ruolo appropriato della religione nella vita pubblica è ancora oggetto di dibattito. Nonostante l’ideale di separazione, la religione rimane un fattore significativo nel panorama politico di molte democrazie moderne, in particolare nel plasmare valori e identità. Anche questo spiega la marcia su Roma dei potenti del mondo per onorare (o festeggiare?) la dipartita del Papa.

Il rapporto tra religione e politica è altamente dipendente dal contesto, variando in base a fattori storici, culturali e sociali. Ciò che potrebbe essere considerato appropriazione in un contesto potrebbe essere visto come un impegno legittimo in un altro. In alcune società, l’identità religiosa è profondamente intrecciata con l’identità nazionale, rendendo gli appelli religiosi una parte naturale del discorso politico; in altre, la diversità religiosa richiede una maggiore cautela nell’uso della religione in politica per evitare l’alienazione o la marginalizzazione di determinati gruppi.

La retorica religiosa è un potente strumento per inquadrare le questioni politiche in termini morali, mobilitando il sostegno basato sui valori religiosi. I presidenti americani, a partire dagli anni ’80, hanno invocato Dio molto più che nei decenni precedenti. Jimmy Carter si identificò come un “cristiano rinato” nel 1976, introducendo un linguaggio evangelico più esplicito nella politica presidenziale.

La strumentalizzazione della religione non è limitata alle società democratiche; anche i regimi autoritari utilizzano la religione per mantenere il controllo e sopprimere il dissenso. I califfati islamici usavano la religione per legittimare il loro dominio e sopprimere il dissenso, ma anche alcuni governi moderni hanno usato la religione come strumento di propaganda e hanno manipolato la religione per ottenere autorità politica e mantenere la legittimità, fomentando conflitti violenti.

I leader politici possono usare la religione per legittimare la loro autorità e scoraggiare l’opposizione rivendicando un mandato divino o allineandosi con i valori religiosi. Ciò può creare la percezione che sfidare il leader politico equivalga a sfidare l’autorità religiosa. L’uso della religione da parte dei monarchi europei durante il Medioevo per stabilire il potere politico attraverso l’autorità religiosa è un esempio storico di questa motivazione. Un esempio più moderno è Netanyahu.

Ma l’appropriazione della religione da parte della politica comporta solo vantaggi? L’evidenza empirica non lo conferma. Gli appelli politici ai valori religiosi possono talvolta portare a un maggiore impegno civico e partecipazione tra gli individui religiosi, ma l’appropriazione politica della religione può esacerbare le divisioni sociali e portare a una maggiore polarizzazione tra gruppi religiosi e secolari, o tra diversi gruppi religiosi. Quando l’identità politica diventa fortemente legata all’identità religiosa, può creare profonde fratture nella società.

Quando il potere politico si allinea troppo strettamente con una religione dominante, può rappresentare una minaccia alla libertà religiosa e ai pari diritti dei gruppi religiosi minoritari e dei non credenti. Uno stato che privilegia una religione può emanare leggi o politiche che svantaggiano o emarginano gli altri. Per esempio, in India alcune leggi sono state criticate per aver preso di mira la comunità musulmana.

L’uso della religione per costruire un consenso politico può talvolta andare a scapito dei valori democratici, escludendo o emarginando coloro che non aderiscono al punto di vista religioso favorito. Fare affidamento su appelli religiosi potrebbe dare priorità ai valori di un gruppo rispetto ai diversi bisogni e prospettive dell’intera popolazione. Il raggiungimento di un autentico consenso politico diventa più impegnativo in società religiosamente diverse, dove fedi diverse possono avere opinioni contrastanti su importanti questioni sociali e politiche. Fare affidamento su un unico quadro religioso per costruire il consenso può alienare coloro che non condividono quella fede.

L’uso strumentale della religione per guadagno politico solleva significative questioni etiche sul potenziale di manipolazione e sullo sfruttamento di credenze profondamente radicate. I critici sostengono che ciò può distorcere gli insegnamenti religiosi e minare l’integrità sia della religione che della politica. L’appropriazione politica può compromettere l’integrità e l’autonomia delle istituzioni religiose, portando potenzialmente a conflitti di interesse e a una perdita di fiducia del pubblico. Le istituzioni religiose che diventano apertamente politiche possono faticare a mantenere il loro ruolo di voci morali indipendenti.  L’uso della religione per guadagno politico può erodere la fiducia del pubblico sia nei leader politici che in quelli religiosi se è percepito come insincero o manipolatorio.

In definitiva, la relazione tra politica e religione è dinamica e sfaccettata, senza risposte facili. Navigare questa relazione richiede un’attenta considerazione del contesto storico, dei valori sociali e dei principi etici. È fondamentale mantenere un equilibrio tra la libertà religiosa e la separazione tra Chiesa e Stato per garantire che la ricerca del consenso politico non avvenga a scapito dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini.

Con la scomparsa di Francesco si apre ora una fase di profonda incertezza. Il conclave che dovrà eleggere il suo successore si annuncia come uno dei più difficili degli ultimi decenni, non solo per l’orientamento dottrinale che emergerà, ma per il contesto ideologico globale in cui si svolgerà: un mondo in cui la morte di un Papa può essere strumentalizzata per rilanciare le peggiori pulsioni reazionarie. I cardinali saranno chiamati non solo a scegliere un nuovo volto per la Chiesa, ma anche a definire una rotta chiara tra le tensioni che scuotono la cristianità globale. Conservazione o riforma, apertura o dogma: il futuro del cattolicesimo potrebbe giocarsi nei prossimi mesi, tra gli scrutini della Cappella Sistina e le pressioni delle varie anime ecclesiali. Le pressioni più forti sembrano arrivare da Oltre Atlantico.

Marjorie Taylor Greene, deputata repubblicana della Georgia, poche ore dopo l’annuncio del decesso di Francesco, ha scritto sui suoi social: “Oggi ci sono stati cambiamenti di grande importanza nella leadership globale. Il male sta venendo sconfitto per mano di Dio”. Non è stato da meno Carlo Maria Viganò, dal 2011 al 2016 nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America, oggetto nel luglio 2024 di una scomunica formale per scisma e rifiuto dell’autorità papale, che su X ha affermato: “La morte di Bergoglio cristallizza, per così dire, una situazione di illegittimità diffusa. Dei 136 Cardinali elettori, 108 sono stati creati da lui; il che significa che qualsiasi Papa sia eletto nel prossimo Conclave – fosse anche un novello San Pio X – la sua autorità sarà pregiudicata dall’essere stato eletto da falsi cardinali, creati da un falso papa.

Papa Francesco ha tentato di “ripulire” la Chiesa – afflitta da mali antichi come l’avidità, il potere, la pedofilia… – cambiandone le regole ma senza pretese riformistiche, sapendo che una Chiesa fondata sulla fede non è riformabile. Francesco lascia un’eredità morale immensa, e un vuoto che sarà difficile colmare. Ma lascia anche una sfida: quella di resistere all’odio, anche quando si traveste da fede. In questo, come in vita, sarà giudicato non dalle invettive dei suoi detrattori, ma dalla memoria dei suoi gesti. E dal rispetto, o dalla vergogna, di chi ha scelto di infangarne il ricordo.

Non resta che ricordare al conclave, che con il latino ha dimestichezza, la locuzione gutta cavat lapidem, letteralmente “la goccia perfora la pietra”, locuzione che vale come esortazione pedagogica per ricordare che con una ferrea volontà si possono conseguire obiettivi altrimenti impossibili, ma può alludere anche al danno derivato da un’azione banale, ma prolungata. Decidano i cardinali se andare verso un Francesco Secondo, come amerebbe la gente comune, o se cambiare drasticamente rotta, come vorrebbero i poteri forti che oggi spadroneggiano nel mondo. Oppure, ricordandosi che la successione viene decisa in Italia, scegliere la classica via di mezzo, preferita da chi non sa scegliere e non sta né di qua né di là.

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

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