Insieme alla digitalizzazione, sembrava una tendenza irreversibile. L’attenzione all’ambiente e in particolare la lotta al climate change antropico era considerata, al netto di qualche sparuta e fisiologica voce fuori dal coro, una battaglia condivisa da tutti. L’elezione di Trump sta invece, ribaltando clamorosamente questo sentiment. Come sempre, non prendo posizioni politiche, né tanto meno mi avventuro in giudizi tecnici sulla natura del riscaldamento globale, su cui non ho competenza. Mi soffermo sugli aspetti sociologici e sull’immaginario collettivo. E mi pare di riscontrare come l’aria sia cambiata.
Durante il primo mandato di Trump, il suo scetticismo sulla reale necessità della lotta al climate change sembrava non coinvolgere l’opinione pubblica, che appariva compatta nel continuare a dare priorità a questo problema. Ora invece sembra che l’elezione del tycoon newyorkese abbia mostrato che il fronte non era poi così compatto. Negli Stati Uniti il concetto stesso di “sostenibilità”, per anni punto fermo di ogni iniziativa, ha perso appeal e, anche nelle campagne di comunicazione delle aziende, non è più una parola imprescindibile.
Facendo una rapida escursione fuori dall’Occidente, va fatto rilevare come, nel recente vertice di Dar Es Salaam, dove i Paesi africani si sono impegnati a fornire energia elettrica a una massa di almeno 300 milioni di persone che attualmente ne è priva, grazie a investimenti per oltre 30 miliardi di dollari, a dominare nei discorsi ufficiali è stato il termine “sviluppo”, mentre “clima” si è sentito di rado.
In Europa “green” da terreno d’incontro sta diventando addirittura una parola divisiva. Forse perché viene associata al cosiddetto “Green deal europeo”, giudicato sempre dí più non una necessità comune per salvare il pianeta, bensì una mossa delle élite che controllano la UE. Insomma, una politica guidata da interessi finanziari e non umanitari. Il problema è che a pensarla così non sono più solo complottisti e forze anti sistema. Persino ecologisti storici si mostrano scettici e fanno rimarcare le contraddizioni di Bruxelles che in nome dell’ambiente continua a introdurre lacci e lacciuoli, , mentre fa ben poco per rimboschire l’Europa. A livello locale, molti sindaci impongono impopolari limiti di 30 km orari alla circolazione e vietano di fumare all’aperto, ma non fanno niente o quasi per ridare polmoni verdi alle città.
Uno dei paradigmi è l’auto elettrica, imposta dall’alto, ma che non convince i cittadini, come dimostrano i deludenti (eufemismo) dati di vendita. Attenzione, quindi, a questi segnali. Il rischio è che l’imprescindibile e salvifico impegno ecologico assuma una valenza politico/ideologica, rischiando l’impopolarità. Come mi ha detto un vecchio ambientalista: piantiamo più alberi e lasciamo perdere regole astruse.
Milo Goj