Tra i tanti incontri e confronti, presentazioni di libri e altre interessanti iniziative che si sono svolte nell’ambito di Bookcity a Milano, dal 13 al 17 novembre, ha meritato particolare attenzione l’arrivo per l’occasione del grande scrittore tunisino Ali Bécheur, in occasione dell’uscita del suo libro “I domani di ieri”, pubblicato da Francesco Brioschi Editore per la traduzione di Giuseppe Giovanni Allegri e la cura di Elisabetta Bertuli. Abbiamo incontrato lo scrittore al Castello Sforzesco, nella sala Weil Weiss, poco prima che il suo libro, che affronta il difficile rapporto tra figlio e padre sullo sfondo di un Tunisia uscita dalle battaglie per la libertà e l’intelligenza, fosse presentato da Isabella Bossi Fedrigotti e Sonia Folin.

Ali Bécheur

Ali Bécheur, il suo è un romanzo molto identitario, anche storicamente, si avverte nelle pagine la partecipazione con la quale descrive il suo paese, il suo passato anche rispetto a un oggi più globalizzato. Eppure scrive in francese, anzi sulla sua biografia leggo “uno dei più grandi scrittori tunisini di lingua francese”. Per lei che rapporto c’è tra lingua letteraria e identità?

Già il concetto di identità mi pone dei problemi. Perché nella realtà cos’è la nostra identità? È l’identità del passaporto? oppure l’identità è culturale? Inoltre non credo che l’identità sia un concetto immutabile e fisso, credo invece che sia un concetto evolutivo. E dinamico. Ci sono cose che possono far cambiare l’identità: un film, un libro possono farci cambiare la nostra percezione delle cose. attraverso le cose e i viaggi che facciamo possiamo cambiare la nostra percezione del mondo. Io credo che l’identità sia la percezione del mondo. Non come ci chiamiamo, dove siamo nati o la nostra nazionalità… cosa me ne importa? cosa mi importa se sei italiano, spagnolo o cubano, cosa cambia? anche la lingua è uno strumento musicale. Io la considero uno strumento musicale. Se uno suona il piano, mica gli dici “Adesso devi suonare il violino”. E viceversa. Se uno è violinista, non gli dici “Perché non sei pianista’”. Quindi è una modalità espressiva. Ciò che conta è quello che si esprime. Quello che trasmettiamo. Ma non sono necessariamente dei messaggi. Si possono trasmettere dei sentimenti, delle emozioni, delle sensazioni… non è per indottrinare la gente, è per trasmettere delle emozioni umane, delle atmosfere.

Io scrivo in francese. E vero. Ma dov’è il problema? Non ci vedo problemi. Ma c’è chi mi dice che sono un traditore perché non scrivo in arabo. Quando mi fanno questa domanda io non rispondo. Quando mi chiedono: perché non scrivi in arabo? Io rispondo: no comment.

Dopo anni di battaglie per la libertà e l’indipendenza del Paese, qual è il lascito dei francesi, oltre alla lingua. E di questo lascito che cosa di buono riconosce alla Francia di avervi lasciato? C’è una differenza in questo senso tra la Tunisia e gli altri paesi dell’Africa nord occidentale, in particolare l’Algeria?

L’eredità francese. Prima di tutto il colonialismo francese fa parte della nostra storia. Che lo vogliamo o no. Certo siamo tutti contro il colonialismo perché sancisce la superiorità di una certa parte del mondo, di una certa parte della popolazione. Una cosa totalmente ingiustificata. Non è possibile giustificare una cosa del genere. Quindi attenzione, che non si dica che io sostengo il colonialismo. Assolutamente no. Dico solo che fa parte della nostra storia. Non si può scegliere cosa tenere, e cancellare tutto il resto. C’è un’eredità? Credo che ci sia. Forse è un’eredità involontaria. Ma c’è. Questa eredità è la democrazia. Perché tra i francesi non ci sono stati solo dei colonialisti ma anche persone che hanno difeso il paese colonizzato: un certo Camus ma meno di Sartre, e anche Simone de Beauvoir, e Henri Jeanson, tutti intellettuali che hanno difeso il popolo colonizzato. Frantz Fanon ha scritto un bellissimo libro intitolato I dannati della terra. Quindi l’eredità è l’eredità di Voltaire, di Rousseau, di Diderot, è il secolo di Lumi, è il secolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. L’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo è stato votato nel 1789 ed è stato scritto dal conte d’Orsay, erede di Voltaire, Rousseau, Diderot…

L’articolo primo dice: tutti gli uomini nascono con gli stessi diritti. Non ha detto “tutti i francesi” ha detto “tutti gli uomini”. Tutti i nazionalisti che hanno lottato per l’indipendenza della Tunisia e che alla fine hanno ottenuto questa indipendenza, hanno studiato in Francia. Cioè le armi del colonizzatore gli si sono rivoltate contro. Perché in Francia il motto è ovunque Fraternità, Libertà, Uguaglianza. Quindi quando questa gente è stata in Francia ha detto “ma allora Libertà, è libertà anche per noi; Uguaglianza, è uguaglianza anche per noi”. È con queste armi che hanno lottato. Perché con le armi militari c’erano da una parte una grande potenza come la Francia e dall’altra un piccolo paese… non era possibile lottare così. Invece con le armi dello spirito, con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, sì.

Più in generale come vive lei personalmente il suo rapporto con gli ex colonizzatori?

Lo vivo bene. Perché non vedo più la Francia come un colonizzatore. Io non sono più colonizzato e la Francia non è più il colonizzatore. Perciò ho gli stessi rapporti che ho con voi qui. Vale a dire su un piano di uguaglianza. E poi è come sempre nella vita: ci sono persone che ci piacciono e altre che non ci piacciono. Se ci piacciono e se troviamo delle affinità, continuiamo a incontrarle. Con i Francesi è lo stesso. Non ho complessi. Ho un’amica francese. Mi trovo bene, non ho problemi e spero che anche lei non ne abbia. Il problema vero è il complesso del colonizzato. Mio padre diceva sempre quando ero piccolo: guarda che loro non sono meglio di te.

Quindi non ho né complessi di superiorità (perché non mi ritengo superiore a nessuno), né di inferiorità. Ritengo che sia una tappa della nostra storia e che questa tappa sia conclusa. Abbiamo voltato pagina.

Veniamo agli aspetti privati del romanzo, seppur inestricabilmente legati a quelli pubblici. Ma vorrei mettere a fuoco con lei il rapporto di Ali con suo padre Omar, un uomo che ha saputo riscattarsi dalle sue umili origini fino ad arrivare al vertice della carriera forense. Ma sul piano privato un uomo estremamente severo e intransigente anche con il figlio Alì, con un rapporto difficile tra i due, di pura obbedienza da parte di quest’ultimo. “Sì papà, sì baba… non ero d’accordo, il mio era un tacito consenso dovuto, approvavo per puro rispetto, regola n° 1 non si contraddice il padre, si ubbidisce a bacchetta”.  Le chiedo se questo Ali ha a che fare con l’Ali autore del libro. E se sì, romanzo autobiografico, dunque?

Per me tutti i romanzi sono autobiografici. Tutti gli autori attingono alla propria vita. Da dove volete che attingano se no? Non siamo degli storici quindi non abbiamo dei documenti, non siamo sociologi quindi non abbiamo né sondaggi né statistiche. Quindi se prendiamo delle cose le prendiamo da noi stessi. Tutti i romanzi sono autobiografici.

Nel mio romanzo faccio parlare tre donne, eppure non sono una donna. L’autore sta dietro ad ogni cosa di cui scrive. dietro a ogni albero, a ogni filo d’erba, dietro a ogni personaggio che inventa. Il primo personaggio che si inventa è quello del narratore. La gente tende a confondere autore e narratore. L’autore è una cosa perché è nella vita, il narratore un’altra perché non è nella vita, bensì nella creazione, in un altro mondo, quello della scrittura e della finzione. La finzione non è la verità. Io uso la verità come certi fanno il volteggio al cavallo. Quello che vedi non è il cavallo bensì il volteggio. Il volteggio è la finzione e il cavallo è la verità. Quindi si parte da un appiglio della verità per inoltrarsi nella finzione. Altrimenti dov’è la creazione? Se ci si accontenta di scrivere la verità, non è letteratura, è giornalismo. Ma uno scrittore fa un’altra cosa.

La figura della madre, seppur le è dedicato un capitolo, è meno preponderante nel libro, anche se forse, con un padre così ci si aspettava un bilanciamento affettivo che facesse da contraltare. Come mai questa assenza? Reale o strutturale al romanzo?

È vero che la madre qui ha poco spazio ma è perché le avevo dedicato un altro romanzo: “Il paradiso delle donne”. Già tradotto in italiano.

E qui mi sono messo dalla parte del padre. Per osservare il rapporto tra padre e figlio. Quindi qui non volevo ripetere ciò che avevo già narrato nel precedente romanzo, cioè il rapporto tra madre e figlio.

Inoltre, non so se lei condivide con me, ma è molto diverso il rapporto che si instaura tra un figlio e la madre e tra un figlio e il padre. Il rapporto con la madre è carnale; il figlio fa parte di lei; esce dal suo corpo. Quindi qui il rapporto è immediato. Il figlio è un pezzo della madre. Il rapporto col padre è molto diverso: si costruisce poco alla volta. O a volte non si costruisce affatto. Può capitare che la coppia divorzi subito dopo la nascita del bambino per la rivalità che si viene a creare. Il figlio che ha preso il posto del padre. E il padre non accetta che il figlio abbia preso il suo posto, che dorma con la mamma mentre lui deve starsene sul divano in salotto.

Da una parte quindi si ha un rapporto spontaneo, innato, immediato, carnale, viscerale e dall’altra c’è un rapporto che deve essere costruito.

Senta, sullo sfondo ci sono le lotte per l’indipendenza della Tunisia, poi tutto è caduto nell’opportunismo di quelli che lei, anche con il titolo dell’ultimo capitolo, chiama “gli anni muti”, con il Paese, come scrive lei “prigioniero” del rais, e non di uno solo e per lunghi anni. Adesso a che punto siamo? La nuova Costituzione del 2014 funziona o siamo a una farsa?

Non è una farsa. È una vera Costituzione di un paese democratico. È una buona Costituzione come quella dei paesi democratici, con una democrazia parlamentare, un presidente con dei poteri ben chiari e ridotti e soprattutto un potere rappresentativo dello stato. Non governa. È il parlamento che decide la composizione del governo. È una vera democrazia. Perché si pensa che i cosiddetti “paesi arabi” non possono essere democratici come se ci fosse un’incompatibilità con il fatto di essere arabi (contesto molto questo, perché non è esatto geograficamente, storicamente… C’è una grande differenza tra i paesi mediterranei e quelli arabi. Noi dobbiamo essere paragonati alla Sicilia, alla Grecia. I paesi arabi sono un’altra cosa.)

Non è una farsa. È una vera Costituzione in uso dal 2011, dalla rivoluzione democratica. Pacifica. Non ci sono state battaglie. Da questo momento in poi ci sono state cinque elezioni. Tre legislative. Due presidenziali. Ogni volta le elezioni sono state trasparenti, come hanno constatato gli osservatori stranieri e la UE.

La costituzione funziona. La gente ha capito che il potere non è a vita, ma dura un mandato, vale a dire un periodo prestabilito. E dopo ci sono delle nuove elezioni. E si ricomincia: se si ha la maggioranza ok, altrimenti tocca a un altro partito, ci sarà un altro governo. E lo stesso vale per il presidente della repubblica.

Mi si dice che il presidente è conservatore. Sì, ma riguarda lui. Non riguarda i tunisini.

So per esempio che in Tunisia c’è un’associazione di omosessuali. Provi a cercare negli altri paesi arabi un’associazione di omosessuali. Un’associazione legalmente riconosciuta, intendo.

C’è un’associazione di atei. Provi a cercare negli altri paesi, in Marocco, in Algeria, in Libia… (Della Libia non parliamone neanche perché lì c’è il caos più assoluto. Noi abbiamo un sacco di difficoltà con la Libia perché i terroristi arrivano dalla Libia), in Egitto… e veda se trova un’associazione di atei. E ancora una volta si tratta di un’associazione legalmente riconosciuta. Noi tunisini siamo stati la prima monarchia costituzionale e siamo stati la prima costituzione del cosiddetto mondo arabo. La costituzione tunisina è stata promulgata nel 1861. Quindi per noi non si tratta di una cosa nuova, dietro di noi c’è una grande civiltà. Siamo gli eredi dei fenici, dei romani, dei bizantini… Anche la storia ha ruolo importante.

Diego Zandel

 

 

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