Quello che state per leggere è un’intervista atipica. Qualche mese fa ho chiesto al drammaturgo, pedagogo e scrittore Remo Rostagno se volesse raccontarmi il “suo” teatro. Le sue risposte alle mie domande sono arrivate in questa forma così unica per narrazione e intelligenza che non erano da toccare, ma solo da pubblicare e tenere come documento prezioso.

A.C.

Nel corso della vita ho cercato mille volte di capire che cosa fosse il teatro. Non ci sono mai riuscito. Poi arriva un momento in cui sei stanco, il cervello riposa e magari mentre dormi il battito del cuore entra in armonia con una parola, una sola: corpo. Su quella parola ho scritto appunti che tenterò di far diventare un libro. Chi li ha letti dice che è un progetto ma anche un pianto e una preghiera. 54 pagine, 54 titoli, teatro, drammaturgia, parola, danza, maschera, solitudine, contatto, improvvisazione, dialogo, cura etc  corredati da grafismi di Lucio Diana e Adriana Zamboni. Il tutto per dire che il teatro non si vede perché abita il nostro corpo di giorno e di notte. Anche quando attraversi una strada, per non essere travolto da un’auto ti muovi come un attore sul palcoscenico. Ma non lo sai. 

Ho accarezzato il teatro fin da bambino visionario quando gli aerei sganciavano bombe e gridavo alla mamma – guarda che belle caramelle cadono dal cielo. Infanzia irresponsabile. Infanzia rivoluzionaria.

Sono nato e non vissuto in un paese senza; senza iniziative, senza divertimenti, senza cinema, senza teatro. Asfittico. A sette anni tento di fare il mio primo spettacolo: scrivo un cartello che dice:  alle ore 14 nel campo di bocce in disuso ci sono due ragazzi che raccontano una storia. Non arrivò nessuno. Fine della carriera di teatrante.

Come allievo, nelle superiori, mentre entro nell’aula di scienze dove in bella mostra è esposto uno scheletro, gli infilo in bocca la cicca  della sigaretta, la professoressa entra in classe, vede il misfatto, urla un ordine – si alzi in piedi chi ha commesso questo orrendo delitto – non mi muovo. La signora prof. pretende di escludermi da qualsiasi scuola italiana per violazione di cadavere, convoca i miei genitori dal preside e ferocemente mi interrogherà ad ogni lezione senza accorgersi che i miei compagni ridono di nascosto mentre osservano che lo scheletro, con cicca in bocca, è diventato un burattino beffante con il quale raccontare una magnifica storia teatrale.

Attraversare il teatro giocando

Mi domandi come ho attraversato il teatro. Anche in questo caso la mia risposta è una parola sola. Giocando. Mi sono laureato con una tesi sul gioco, ho insegnato nelle scuole superiori senza dare voti ma facendo “giocare” i miei allievi e ho smesso di insegnare all’università storia del teatro perché mi annoiavo mortalmente e per di più i miei allievi, cosa comune in quegli anni, pretendevano un voto alto uguale per tutti.

Faccio una capriola all’indietro nel tempo e confesso: nel corso della mia vita professionale mi sono divertito a dismisura per cinque anni, quando ho insegnato nella scuola elementare. Che cosa faccio? Teatro. I genitori mi detestano, i loro figli mi adorano, il direttore non si orienta ma non ha il potere di licenziarmi.

“Costringo” i ragazzi ad ascoltare Bach, la passione secondo Giovanni, troviamo un testo e lo mettiamo in scena. Ogni ragazzo ha una decina di fogli in mano, da una parte sono scritte parole, dall’ altra il foglio è colorato. Ogni foglio un colore diverso.  Si va dal bianco, la vita,  al nero, la morte. Mi dirai: ma che ci capivano?  Intuivano che le passioni hanno il sopravvento sulla ragione. E non potevo ancora aver letto Intelligenza emotiva di Daniele Goleman pubblicato in Italia nel ‘97.

Lavoro per qualche anno con Sergio Liberovici musicista, compositore, teatrante e da lui apprendo un sacco di cose. Passa intere giornate in classe con me. Lavoriamo insieme. Prepara un’orchestra che suona con legnetti portati da casa, io riduco il testo e mettiamo in scena Il consenziente e il dissenziente di Bertold Brecht. La Rai lo fa passare una sera, prima del telegiornale delle 20, nella rubrica Cronache italiane.

Basta! Se vado avanti così mi autosbrodolo. Ancora un appunto. Compro una macchina fotografica. E ogni giorno usciamo lungo le strade del paese. I ragazzi fotografano ciò che a loro interessa, dalle fabbriche ai negozi del luogo dove abitano. A fine anno le fotografie vengono incollate su grandi fogli appesi alle pareti della palestra. Genitori stupiti – Che cosa vuole insegnare ai nostri figli?-   La biennale di Venezia ci invita. Scegliamo un locale dove non sono previste sedie. Solo i cartelloni appesi. I ragazzi si passano una canna di bambù di mano in mano. Raccontano con le fotografie la storia del loro paese. Critici provenienti da mezza Europa sono stupefatti. Gianni Rodari scriverà la prefazione del libro che racconta il lavoro realizzato, Un paese pubblicato da La Nuova Italia. 

Poi Sergio e io prendiamo due strade diverse. Dispiace a lui. Non piace a me.      

A proposito di come ho attraversato il teatro. Rispondo lanciando una freccia che corre lungo il tempo.

Ho visto lo spettacolo Nel fondo (L’albergo dei poveri ) di Maxim Gor’kij regia di Giorgio Strelher e ho detto : nel teatro è nascosto un tesoro inestimabile. Ho visto La classe morta di Tadeusz Kantor: sono stato stregato, costretti a cacciarmi dalla sala. Ne ho visti altri, Café Muller di Pina Bausch e tanti altri ancora. Compresa la sequenza di spettacoli di teatro ragazzi che l’Eti mi aveva chiesto per anni di andare a vedere lungo la penisola. Belli, mediocri, noiosi, orribili. Mille volte, in mille convegni ho sentito ripetere: il teatro è morto. Oggi continuo a chiedermi : perché il teatro non muore ? Se riesco a pubblicare quel libro a cui accennavo sopra te lo regalo. Ma dalle domande che mi hai fatto hai già capito tutto. 

L’età dell’animazione

E’ vero:  si lega il mio nome alla nascita dell’animazione. E’ il 1977  quando scrivo sulla rivista Scena un articolo titolato Alla ricerca dell’animazione dove si legge che scegliere la strada dell’animazione come metodo di lavoro fra la gente, vuol dire credere nel valore della fantasia e della creatività non disgiunta dalla ragione. E questa è utopia. L’animazione è germogliata nella scuola ed è la scuola che ha richiesto gli animatori per scrollarsi di dosso il peso della sua reazionarietà. Che fa l’Università? Si appropria dell’animazione come oggetto di studio e la ingabbia. 

L’universo che ruota intorno all’insegnamento è, ieri come oggi, prevalentemente reazionario dove il sapere è colato nelle teste per riempirle di nozioni  incollate nella memoria. La spinta antiautoritaria del ‘68 si sfalda mentre chi è più illuminato sostiene  che animare vuol dire far fiorire la ragione che si trova nelle persone, bambini, adulti, vecchi. 

Ho sempre sostenuto che giocare significa educare. La scuola sosteneva e sostiene che giocare è perdere tempo. Quando vedevo le mie nipotine tornare da scuola avrei pianto mentre desideravo andare a trovare le loro maestre per tentare di convincerle che è un’idiozia riprendere i quaderni usati negli anni precedenti e ripetere le stesse cose.  Vivere è illuminare la mente ogni giorno. Esausto, sei anni fa, ho scritto Manifesto per una rivoluzione della scuola con l’illusione di aprire qualche finestra nel carcere scolastico. L’editore ha venduto una caterva di libri e quando avrei dovuto incassare quattro soldi è dolosamente fallito.  

Dicembre 1980. Marco Baliani parte da Roma e arriva a casa mia a Torino. Da Milano arriva Maya Cornacchia. Passiamo la giornata a discutere di animazione, alla sera telefoniamo al direttore di Scena e gli comunichiamo che abbiamo deciso di uccidere l’animazione.

Gli inviamo il testo con il titolo In morte dell’animazione. Comincia così: mai come nei prossimi anni si parlerà di animazione. L’animazione nasce infrangendo le regole, muore quando genera nuove regole.  Si spezza sul terreno del sociale e nascono gli operatori culturali; inventa la partecipazione mentre le istituzioni comprano il coinvolgimento; l’animazione ha individuato nel corpo le radici della comunicazione oggi lascia un bisogno di corporeità su cui gioca l’industria culturale di massa. Ripeto: dicembre 1980.

Ho in mano l’Enciclopedia del teatro del 900 curata da Antonio Attisani per la Feltrinelli ancora nel 1980. Per questo librone ho scritto due voci Animazione e Teatro per ragazzi. E, a distanza di anni, vedo due “errori”:  animazione priva dell’aggettivo che l’avrebbe qualificata: teatrale e teatro per ragazzi che avrebbe dovuto chiamarsi teatro-ragazzi senza quella preposizione che faceva schizzare il lavoro indietro di decenni.  

Mi domandi come racconterei oggi quell’esperienza e come si potrebbe coniugare nel tempo contemporaneo. Fossimo uno di fronte all’altro ti direi: caro Alessandro, mi dispiace ma non ne sono capace. La parola animazione è nata con un significato affascinante, si trattava di offrire entusiasmo, ardore, slancio all’insieme dei comportamenti culturali che erano flaccidi, modulati sui decenni precedenti. Ma l’animazione è stata aggettivata fino al vomito: animazione sportiva, sociale, culinaria e molto altro.

Il termine ricerca non era usato, si cercava ciò che si era smarrito. Ma non si sapeva che cosa si fosse smarrito. Un cane che si morde la coda. Il comune di Torino aveva assunto un buon numero di animatori ma finivano per intrattenere i bambini mentre le maestre uscivano dalla classe per fumarsi una sigaretta. Cosa diversa era quando l’insegnante, infrangendo le regole, offriva un’anima alle attività. Ho fondato con l’amico Nino Colombo che per professione curava uno ad uno i libri dell’Einaudi ,la Biblioteca di Beinasco, periferia di Torino e ne sono stato il primo bibliotecario. Lì ho fatto intervenire persone di valore, Italo Calvino, Primo Levi, Mario Rigoni Stern, Danilo Dolci, Gianni Rodari e altri.  

Mi illudevo che gli operai, genitori degli allievi della scuola, dopo una giornata di lavoro, venissero in biblioteca. No, andavano a dormire. Il primo turno comincia alle sei del mattino. Ma la biblioteca era comunque gremita.

La narrazione

Le radici del teatro di narrazione. La narrazione nasce in larga misura dall’intersezione  di un attore con un drammaturgo, anzi un dramaturg come si intende in Germania. Ho proposto il lavoro su Kohlhaas a Marco Baliani perché sapevo la sua voglia di cercare nuovi rapporti con il pubblico e per la mia aspirazione a trasformare un semplice racconto in dramma. La stessa cosa di quando avevo proposto a Beppe Rosso di indagare il territorio dov’è nato, le Langhe, con Dei liquori fatti in casa che Gabriele Vacis rese un bellissimo racconto terrigno. 

Devo spiegarmi meglio. Vado a Genova per vedere Baliani che racconta una fiaba a bambini molto piccoli. Mi colloco nel punto giusto per carpirne le reazioni. Uno, in particolare, mi colpisce. Ascolta e un filo di saliva gli cola dalla bocca. Non se ne avvede. Commentiamo il fatto mentre sorseggiamo un caffè. Dico a Marco che sto rileggendo i drammi e le novelle di  Heinrich von Kleist. Mi colpisce il coraggio di Baliani di “inventare” le  fiabe mentre le racconta ai bambini e sono colpito dalla mia rilettura della novella di Kleist dal titolo Michele Kohlhaas. La scrivo, la faccio leggere a Marco e facciamo qualche prova. Portiamo lo spettacolo come studio al Cabaret Voltaire di Torino. Quindici spettatori, un critico teatrale che alla fine mi becca e dice “ un attore che per tutto il tempo dello spettacolo non si alza mai da seduto non può catturare l’attenzione” Mi prendo sottobraccio la sedia di legno che avevo portato da casa e buona notte.

Rielaboriamo progressivamente il testo, il narratore ad ogni replica modifica qualche cosa, la più sonoramente vistosa, il cambio delle scarpe per far rumoreggiare meglio i cavalli e Kohlhaas  galoppa. 

E’ un racconto vivo da trent’anni, che sfiora le milleduecento repliche. C’è un solo luogo dove non sopporto di vedere Kohlhaas, la scatola televisiva. La RAI lo ha fatto passare più volte in forma illustrata. Caro Alessandro, se tu venissi a sapere che lo trasmettono in Rai, fatti un regalo, non guardarlo. E vai a vederlo dal vivo anche se è a Occhiobello di sotto.

Non posso concludere senza riferire le intense esperienze di anni  che ho vissuto con Antonio Viganò fondatore del Teatro la Ribalta. Mi aveva invitato a vedere un suo lavoro e chiesto un giudizio. Gli risposi  “è orrendo, una lastra di ghiaccio” “Scrivimi che cosa hai visto di così brutto” E stesi diverse pagine ricche della mia verità. Fu davvero felice anche perché gli proposi temi che gli appartenevano in modo forse ancora inconsapevole. Dalla ricerca  sul tema della morte ispirato a un libro di Elias Canetti è nato Scadenze. Ci lavorammo due anni. Lui e Michele Fiocchi, l’attore con cui ha costituito una coppia artistica straordinaria, provavano tutta la settimana io li raggiungevo il sabato e la domenica e “distruggevo” ciò che avevano creato. Risultato? Molto buono. Ha girato alcuni teatri d’Europa e partecipato al Festival della Gioventù di Caracas.  Dal tema della morte al tema del malattia. Nasce in un momento di grande leggerezza creativa lo spettacolo Fratelli  ispirato al libro omonimo di Carmelo Samonà. Risultato ? Eccellente. Poi un terzo spettacolo coprodotto dal Teatro di Lille in Francia, Ali, sul tema del mistero, dal libro di James Stephens a completare quella che chiamo la Trilogia dell’Essere. Vincitori del massimo premio  di teatro organizzato dall’Ente Teatrale Italiano.

Di recente mi hanno assegnato il premio EOLO AWARD  alla carriera (che significa alla vecchiaia) Chi conosce il mio percorso e ha scritto la motivazione del premio definisce i tre spettacoli di cui sopra  “trilogia fondamentale della storia del teatro ragazzi” – Falso. Che cosa c’entrano i ragazzi non l’ho capito. Quelli erano e sono spettacoli pour tout public, per tutti. Quegli spettacoli, creati con Viganò oggi potrebbero anche dirsi di arte performativa:  c’è la parola rarefatta, tre scarne paginette di testo, dialoghi stringati quasi monosillabici, gesti e movimenti sorprendenti, danze non danzate.  

Per completare il quadro di lavori significativi aggiungo l’ideazione, nel 1996, con Viganò, per il teatro di Lille in Francia, di Carreau en marche, un evento teatrale di territorio realizzato con tutta la popolazione di un paese di ex minatori. Di rimbalzo, nel 1998, su incarico della Regione Toscana, abbiamo creato all’isola d’Elba Sirene, teatro evento di territorio con la popolazione di paesi legati alle miniere di ferro.

Chiudo con una sola parola: corpo-teatro. La stessa che ho usato in apertura per quel libro che non è ancora diventato un libro. Se troverò una casa editrice che lo pubblicherà la prima copia sarà per te.   

Remo Rostagno

Alessandro Cappai

Giornalista. Insegna giornalismo digitale al master in giornalismo “Giorgio Bocca” all’Università di Torino. È un orgoglioso iscritto dell’Online News Association. È stato speaker al Festival...

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