Nella settimana dal 7 al 12 novembre 2022 sono stato inviato in Turchia dall’OIAD (Observatoire International des Avocats en Danger), con sede a Parigi, come osservatore internazionale per seguire le udienze finali di un processo a carico di 22 avvocati accusati di essere partecipanti e finanche organizzatori di un’associazione terroristica. Si trattava di un processo iniziato con una prima fase nel 2013 con arresti e detenzioni per circa 9 mesi, e poi proseguito con una seconda tranche nel 2017 con nuove misure di carcerazione preventiva.

Prove inconsistenti

Le imputazioni nei due processi erano pressoché sovrapponibili. Le prove a sostegno dell’accusa erano sostanzialmente inconsistenti. In primo luogo, sarebbero state utilizzate testimonianze, in parte rese solo alla Polizia e al Pubblico Ministero, con testimoni in larga misura anonimi – cioè con identificazioni fittizie – mai esaminati in contraddittorio. In secondo luogo, vi sarebbero stati alcuni files recuperati dalla Polizia Turca in Belgio, files dei quali non è stato possibile esaminare la sorgente, ma solo le relative trascrizioni preconfezionate dagli inquirenti.

Due processi con imputazioni sovrapponibili

Altri elementi di prova erano costituiti dall’attività professionale degli imputati, rei di aver difeso presunti terroristi, di aver partecipato a conferenze stampa nell’interesse dei propri assistiti. Di aver rammentato ai propri clienti arrestati il diritto di rimanere in silenzio, e da ultimo di aver partecipato ad un funerale di un proprio cliente deceduto. Sulla base di tali elementi In qualsiasi paese civile non sarebbe mai stata esercitata alcuna azione penale. Nel caso in esame si sono invece avviati due processi – con imputazioni in parte sovrapponibili, in violazione del principio del ne bis in idem – si sono trattenuti in carcere da anni, in regime di isolamento, 5 avvocati (Ebru Timtik, Barkin Timtik, Selcuk Kozagach, Oya Aslan, Taylan Tanay) si è tenuto un dibattimento nel quale non è stata svolta alcuna istruttoria. Non sono stati esaminati in contraddittorio i testi chiave dell’accusa, non sono stati ammessi i testi della difesa, non è stata ammessa la richiesta di consulenza tecnica per individuare la fonte delle presunte prove digitali.

Sciopero della fame per avere un equo processo

Durante il procedimento uno degli imputati, l’avvocata Ebru Timtik, ha iniziato uno sciopero della fame per avere un equo processo, con un digiuno che l’ha portata alla morte nell’agosto del 2020. Nel corso della discussione finale il Presidente ha deciso di togliere arbitrariamente il diritto di difesa ad 11 imputati, rivedendo successivamente la propria posizione, ma limitando la difesa per i detti imputati a soli 10 minuti di intervento. Un elemento sconcertante – per non dire farsesco – si è verificato alla lettura del dispositivo di ben 25 pagine, lettura iniziata in modo pressoché coincidente con l’ultima parola pronunciata dall’ultimo difensore, con ciò confermando che il verdetto era già stato predisposto in epoca antecedente allo svolgimento delle difese.

Un verdetto “preconfezionato”

Peraltro, trattandosi di Tribunale collegiale, la lettura immediata del verdetto ha evidenziato che il Presidente non ha neppure consultato i due Giudici a latere per la decisione collegiale, confermando ulteriormente che non si è trattato affatto di decisione presa all’esito del dibattimento, ma di verdetto “preconfezionato” in tempi pregressi. Si sta discutendo di condanne che per i quattro imputati principali arrivano rispettivamente a 20 anni e 6 mesi (Barkin Timtik ), 16 anni e 6 mesi (Oya Aslan), 13 anni (Selcuk Kozagach ) e 11 anni e 3 mesi di reclusione (Taylan Tanay), mentre per gli imputati a piede libero le condanne vanno da 1 a 7 anni di reclusione.

Continua violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo

Nella nostra qualità di osservatori internazionali abbiamo redatto rapporti giornalieri che hanno rimarcato la violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con particolare riguardo ai principi del giusto processo (art. 6), dei Principi Fondamentali delle Nazioni Unite sull’indipendenza della magistratura, adottati al 7° Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine, adottati dall’Assemblea generale con Risoluzioni 40/32 del 29 novembre 1985 e 40/146 del 13 dicembre 1985 (Principi 2, 4 e 6), nonché dei Principi Fondamentali sul ruolo degli avvocati (Carta dell’Avana) adottati dall’Ottavo Congresso delle Nazioni Unite (Principi 16, 18 e 23).

Vero e proprio “killeraggio politico”

Senza entrare in un’analisi dettagliata della vicenda, ciò che può essere sinteticamente esposto in questa sede è che si è trattato di un’operazione di “killeraggio politico”. Cioè di eliminazione di soggetti non graditi al regime, senza neppure il rispetto formale della finzione giudiziaria: le violazioni delle norme fondamentali poste a difesa dei diritti umani sono tali da rendere di fatto inesistente la cornice processuale costruita ad hoc.
Deve tuttavia osservarsi che la vicenda di cui si discute non è affatto un caso isolato e l’origine del fenomeno parte da lontano. Sin dall’ascesa al trono di Erdogan, di pari passo con le restrizioni in danno degli oppositori, delle minoranze, dei sindacalisti e della stampa, si è verificata una pressione governativa su giudici, pubblici ministeri e avvocati per cercare di ridurre le garanzie previste dallo stato di diritto.

Una svolta con la riforma

Il punto di svolta si è avuto tuttavia con la riforma del 2014 che ha portato il Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori (HSYK) e l’Accademia della Magistratura sotto il diretto controllo del Ministro della Giustizia. Un esempio della portata della menzionata riforma, e cioè del venir meno dell’indipendenza della magistratura, lo vediamo proprio nel processo descritto in questo articolo. Nella seconda tranche del processo, il 14.9.2018 il primo giudice dibattimentale (la 37esima Sezione Penale del Tribunale di Istanbul) aveva disposto la rimessione in libertà degli arrestati. A seguito dell’impugnazione del Pubblico Ministero la decisione è stata nottetempo riformata e il 16 settembre 2018 – due giorni dopo – gli imputati venivano nuovamente arrestati e riportati in carcere.

Strumento giudiziario per eliminare gli oppositori

Dopo ulteriori due giorni, il 18 settembre 2018, i giudici che avevano provveduto sulla liberazione degli imputati sono stati trasferiti immediatamente al Tribunale del Commercio ed è stato ricostituito un nuovo collegio più “compiacente”. La possibilità per il Ministro di trasferire immediatamente, nel giro di una sola giornata, il giudice naturale di un processo fa sì che le decisioni siano pesantemente condizionate. E va sottolineato che il trasferimento, il demansionamento e persino il licenziamento – largamente praticati – costituiscono la migliore delle ipotesi per il giudice turco “non obbediente” al regime poiché lo stesso trattamento riservato agli avvocati del processo in esame è stato spesso riservato anche ai giudici “dissenzienti”. I giudici e i pubblici ministeri licenziati e indagati sarebbero circa 4.000, e nelle carceri turche sono finiti in manette circa 2.500 magistrati.

Dissidenti senza più difese

La brutale sottomissione della magistratura ha consentito al regime di utilizzare lo strumento giudiziario come una sorta di esecuzione sommaria per eliminare oppositori e dissidenti perlopiù non violenti: si parla di oltre 300.000 perseguitati. Analoga sorte hanno subito gli avvocati, con oltre 1.500 indagati per terrorismo e oltre 600 professionisti in carcere per le stesse accuse. Eliminare gli avvocati che difendono lo stato di diritto consente infatti di privare i dissidenti di ogni difesa, lasciandoli in balia dell’arbitrio più totale. L’elencazione delle operazioni liberticide fatte in particolare dal 2016 ad oggi richiederebbe un trattato enciclopedico sicché è opportuno limitarsi ad alcune brevi considerazioni. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha invero ripetutamente condannato la Turchia per le molteplici violazioni della Convenzione. Va nondimeno osservato che la Corte ha spesso respinto innumerevoli ricorsi in materia perché i ricorrenti non avevano esperito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento interno.

Copertura internazionale per il regime di Erdogan

Ma, come si è potuto appurare sul campo, nel caso della Turchia i “rimedi interni” sono ormai una pura finzione. Si dovrebbe quindi riflettere sul formalismo e sulla timidezza della CEDU. Un altro versante che deve far riflettere è la copertura internazionale di cui gode indiscriminatamente il regime di Erdogan. Il ruolo importante attribuitogli dalla Nato, il rapporto privilegiato con gli USA e il sostegno economico del Qatar tengono Erdogan al sicuro da ogni concreta pressione che possa impensierire il suo progetto autoritario di cancellazione dello stato di diritto. Per sottolinearne l’importanza nell’ambito dell’alleanza atlantica, basti solo pensare che la spesa militare in Turchia è passata dai 19 miliardi di dollari del 2014 ai 99 miliardi del 2021. Anche a tal riguardo l’Europa dovrebbe avere il coraggio di prendere posizioni più coraggiose ed autonome rispetto agli attuali – e “squilibrati” – assetti geopolitici. Ma, purtroppo, anche quest’ultima considerazione appare ormai come il solito disco rotto che sentiamo ripetere invano in tutte le occasioni

Massimo Chioda

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