L’accordo di pace di Dayton, è ormai alle corde. Si tratta di un testo formalizzato a Parigi il 14 dicembre 1995 da tutte le parti in causa nella guerra dei Balcani che ha portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia. L’accordo mirava a dare ordine ai confini delle entità statali che ne facevano parte concentrandosi sull’oggetto della contesa tra serbi, croati e bosgnacchi (i bosniaci musulmani). Ovvero dare ordine alla Bosnia Erzegovina.

La divisione della Bosnia Erzegovina

Si ricorderà che la Bosnia Erzegovina fu divisa in due parti quasi uguali, una affidata ai serbi, con la costituzione della Republika Srpska, e l’altra ai croato-bosgnacchi. Il tutto però in una cornice statale unitaria. Per cui ci si è trovati davanti a entità statali dotate, ciascuna, di poteri autonomi in vasti settori, con parlamenti propri. A livello statale complessivo vige una Camera dei rappresentanti del Parlamento eletti ogni 4 anni e composta da 42 deputati (28 eletti nella Federazione, 14 nella Repubblica Srpska). A questa cui si aggiunge la Camera dei popoli composta da 15 rappresentanti, 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.

Ciliegina sulla torta, sul modello ricalcato su quello già dimostratosi fallimentare della Jugoslavia del dopo Tito, c’è una presidenza collegiale. Al vertice ci sono tre rappresentanti, uno per ogni componente che, a turno, ogni otto mesi si alternano, con la formula del primus inter pares nella carica di presidente.

Risultato: un immobilismo che ha generato una crisi economica e sociale. A questa si è ora inevitabilmente innestata quella politica con reazioni suscettibili di una deriva che può portare a un nuovo conflitto armato.

L’attivismo di Milorad Dodik, leader della Republika Srpska

La situazione però è tale che a prevalere è la confusione. Vi sono i veti incrociati delle potenze in campo (Ue, Usa, Russia, Cina e Turchia) e l’attivismo dell’attuale membro serbo della presidenza tripartita: Milorad Dodik.

Dodik è leader della Republika Srpska e da metà ottobre aveva annunciato la creazione di alcune istituzioni autonome proprie, tra le quali, oltre a quella sanitaria e fiscale, una giudiziaria e, addirittura, militare.

Come scrive Alfredo Sasso sull’Osservatorio dei Balcani e del Caucaso, questo riassumerebbe “le funzioni dell’Armata della Republica Srpska (VRS), responsabile di diversi crimini di guerra nel 1992-95 e definitivamente sciolta nelle Forze armate bosniache unificate nel 2005” (proposta, questa, che per ora è stata ritirata da Dodik). Anche se sarebbe emersa la volontà di creare un Consiglio superiore della Magistratura e della Procura (HJPC), come scrive East Journal “in pieno conflitto con l’analogo ente istituito a scala nazionale già nel 2004” e che “L’eventuale approvazione di questo disegno di legge – che dovrebbe tornare in parlamento per la discussione finale entro 90 giorni – configurerebbe, quindi, la creazione di un’istituzione incostituzionale poiché prevedrebbe il trasferimento di competenze statali alla singola entità, la RS appunto”

Chi vuole ridisegnare i confini nei Balcani

Esiste anche un documento non ufficiale dello sloveno Jansa, ispirato anche dall’ungherese Orban, di ridisegnare i confini decisi con l’accordo di Dayton secondo criteri etnico/religiosi. Tale proposta che, non a caso, ha trovato il consenso di Serbia e Croazia.

Non meno attivo di Dodik, anche se apparentemente più defilato, è infatti il ruolo di Dragan Čović, Segretario dell’HDZ, già membro croato della Presidenza tripartita. Čović, ha incontrato da subito l’ostilità di Sarajevo che vedrebbe il territorio bosniaco ridursi alla sola componente bosgnacca.

Quello di Jansa può, però, essere considerato un ballon d’essai, mentre più concreta e pericolosa appare la manovra di Milorad Dodik. Perché si tratta di un’operazione che sottende una volontà secessionista che, soprattutto per la sua natura unilaterale, agita le forze in campo. A meno che quella di Dodik non sia tutta una manovra, cioè, come sospetta Valery Perry, Senior Associate presso il Democratization Policy Council (DPC) in una intervista a Luisa Chiodi per OBC, non abbia  “capito che se intensifica la retorica, se minaccia di dichiarare guerra o minaccia la violenza politica, allora tutti corrono da lui per dargli qualcosa”).  

Cosa può fare la comunità internazionale

A questo punto si capisce che la comunità internazionale non può stare a guardare, come sembra stia facendo. Un po’ per inerzia, un po’ per divisioni tra le diverse potenze di influenza nella regione (la Russia interessata alla Serbia). E anche per una diversa identità di vedute al loro interno. Infatti, nell’amministrazione Usa, c’è una differenza di posizioni tra Gabriel Escobar, consigliere del Dipartimento di Stato per i Balcani Occidentali, e Matthew Palmer, inviato speciale per i Balcani. Il primo sarebbe orientato per il mantenimento dell’unità del Paese, il secondo sarebbe più disposto verso una divisione etnoreligiosa.

La debolezza e le divisioni dell’Ue

Risalta in tutto ciò se non l’assenza della Unione Europea, sicuramente la sua debolezza. La direttrice delle Relazioni Diplomatiche con i Balcani Occidentali, Angelina Eichhorst che il 20 ottobre scorso si è incontrata con Palmer in Bosnia. Eichhorst ha presentato un documento in cui genericamente si parlava della necessità di un dialogo tra i leader politici. Sul tavolo anche l’ipotesi di sanzioni individuali nei confronti di chi (riferimento a Dodik) si muove non in concerto con gli altri. Sanzioni che il Consiglio Ue deve decidere all’unanimità (campa cavallo!).

Troppe divisioni anche all’interno, dell’Ue. Anche nello stesso rapporto annuale della Commissione Ue sullo stato del processo di allargamento dell’Unione in Bosnia Erzegovina. Come scrive l’analista Vedran Džihić sul suo blog biepag.eu: “Mentre un decennio fa la presentazione era il punto di riferimento principale per il calendario politico, sia per i politici che per i media, quest’anno – in qualche modo simbolico – il rapporto più negativo per la Bosnia finora è passato inosservato”.

E ancora: “Dall’avvio della Bosnia sulla strada dell’integrazione nella Unione nel Duemila, il divario tra la valutazione della UE sui (non) progressi della Bosnia in termini di integrazione nella stessa e le realtà politiche non è mai stato così grande come lo è attualmente”

Debellare il cancro prima che la Bosnia entri nell’Ue

Il che significa che non bisogna perdere altro tempo se vogliamo, prima ancora che la Bosnia entri nella Ue, debellare il cancro che sta corrodendo il tessuto politico, economico e sociale della stessa. La cura, pertanto, non può che essere radicale. La comunità internazionale, e in primis la Ue, si deve far carico del problema mettendo tutti gli attori coinvolti intorno a un tavolo avendo già a disposizione un piano che, come afferma in una intervista rilasciata a East Journal  l’ambasciatore Michael Louis Giffoni, già con incarichi importanti nei Balcani, dal 1994 al 2014,  superi la gabbia etnico-religiosa in cui si dibatte la Bosnia. 

Riformare il sistema stabilito con la pace di Dayton nei Balcani

A riguardo, facciamo nostre le soluzioni che lo stesso ambasciatore Giffoni, nella stessa intervista propone. “Solo una riforma generale del sistema di governance istituito a Dayton, e il superamento del principio etnico che ne è alla base (essenziale allora per mantenere la pace ma la cui mancata “evoluzione” è risultata dannosa per l’institution building) potrà effettivamente portare a un miglioramento della vita dei cittadini e non alla preservazione del potere (e relativi interessi) di chi già lo detiene”

I cittadini bosniaci di ogni etnia e religione sono già pronti Anche le relativamente recenti elezioni comunali di Sarajevo lo hanno dimostrato. Il sindaco eletto in prima battuta, il serbo Bogić Bogičević, fu indotto a dare le dimissioni in seguito alla elezione a presidente dell’assemblea comunale di un altro serbo. Il che era in contrasto con le procedure di governance imposte da Dayton.  Non a caso si è parlato allora di “sgambetto procedurale”. Di un giochino delle oligarchie etnico-religiose che fanno prevalere i loro interessi di parte, ovvero la preservazione del potere, rispetto agli interessi di tutti. Il cancro sta tutto lì.

Ma avrà la comunità internazionale e tutti attori interessati il coraggio di estirparlo?

Diego Zandel

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