Intanto una premessa: i titoli di questi miei interventi (una specie di rubrica-non rubrica) sono una citazione-furto di un film degli anni ’80 Cercasi Susan disperatamente.

Mi è subito piaciuto quel “disperatamente”, termine estremo da utopista o da innamorato, per cui ho iniziato a guardare attorno per trovare cosa valesse la pena cercare “disperatamente”. Ne è nato un elenco disordinato a cui oggi aggiungo la parola “soft power”.

Cosa cerca Woody disperatamente?

Anche oggi parto da un film: Manhattan diretto e interpretato da Woody Allen (quando Woody non era ancora considerato dalla sua ex e poi da tutto il mondo il male assoluto). Il film, arrivato nelle sale nel 1979, ha un inizio folgorante appoggiato sulla rhapsody in blue di George Gershwin composta nel 1924. Una meraviglia che con gli anni non ha perso un grammo della sua magia. Girato in un bianco e nero contrastatissimo, come lo erano le foto della Parigi degli anni ’30, è una splendida lettera d’amore per fighetto-chic spedita a New York.

A un certo punto, in quel film, Woody Allen sdraiato sul divano si chiede quali siano le cose per cui vale la pena di vivere.

https://www.youtube.com/watch?v=uXH2w3dWnrs

Domanda da un milione di dollari

Visto che siamo usciti (apparentemente) da una pandemia per infilarci subito nei “venti di guerra” giro a me e a voi questa domanda:
Qual è il soft power che rappresenta l’ossatura della nostra identità e che ha fatto innamorare a lungo il mondo? Quello, per capirci, per cui escludendo i temi più profondi vale la pena vivere?”.

Il soft power visto dall’America

Il soft power a stelle e strisce è un certo cinema che faceva sognare. Quello di Frank Capra, ad esempio, in cui il cittadino comune vince contro la macchina burocratica. O quello in cui un bello e una bella (Robert Redford e Jane Fonda, giovanissimi), si sposano, vanno a vivere in una mansarda sotto i tetti litigando e rappacificandosi. E anche quello in cui una escort (la protagonista di Colazione da Tiffany immaginata da Truman Capote) diventa una specie di angelo elegantissimo e senza peccato nel film omonimo di Blake Edwards (Audrey Hepburn).

È il mito della frontiera che ti mette sempre alla prova ma che, poi, ti consente di vincere. È il cowboy della Marlboro e il Babbo Natale della Coca Cola. E’ la Silicon Valley dei geni del garage ed è lo: “Stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs.

Il soft power visto dall’Europa

E’ il cinema italiano neorealista “alto” fatto di popolane toste (Anna Magnani), preti addolorati e bambini che sarebbero diventati uomini con addosso la voglia di costruire (molti italiani del boom economico). È anche il cinema neorealista “ basso” fatto di “poveri ma belli” coatti e ingenui. Sono anche La Dolce Vita di Fellini e 8 e1/2. È il cinema francese “tres tre chic” di Truffaut e della nouvelle vague, sono lo sguardo dolce-malinconico di Delon, quello sveglio di Belmondo e il broncio di Brigitte Bardot.

È il jazz diventato parigino negli anni ’50, è l’Inghilterra delle minigonne e della rivoluzione musicale che avrebbe segnato i decenni successivi in tutto il mondo. Sono le battaglie per i diritti dell’Italia anni ’70 e l’illusione di essere diventati tutti ricchi della Milano anni ’80 con Armani sulla copertina di Time e, a Torino, Gianni Agnelli alla partita, la domenica, con l’orologio sul polsino.
Sensibilità e mode. Antonioni e Sartre a scavare nell’anima. Visconti e Saint Laurent a costruire bellezza, l’uomo sulla luna e Italia-Germania 4 a 3. Queste sono solo alcune ragioni di felicità e forzieri di bellezza. Cercheremo altre cose (qui non ci sono libri, arte, architettura, design ecc…).

Chi è il cattivo del film?

La domanda è: “Perchè tutto questo oceano di soft power si è lasciato alle spalle soprattutto scie di rancore, rabbia e populismi?”. Detto in altre parole: “Chi è il cattivo del film? E’ uno o lo siamo un po’ tutti?”.

A proposito di soft power, contaminazioni e contemporaneità, l’immagine che vedete è stata pubblicata da La Repubblica pochi giorni fa. Qui Bucchi pesca a piene mani nel lato oscuro dell’American Way of Life (la solitudine), ruba un titolo bellissimo (Quel che resta del giorno) ad uno scrittore anglo-giapponese premio Nobel (Kazuo Ishiguro). Trasforma un contenitore di acqua o caffè in un missile e ci regala un’istantanea delle nostre paure attuali.
Ah, dimenticavo, ho conservato nell’immagine di Bucchi il fascino “imperfetto” delle cose stampate sulla carta 🙂

Gabriele Isaia

Gabriele Isaia

Ha fatto il giornalista economico, ha aperto una sua società di comunicazione strategica, ha avuto “incontri” con l’architettura, l’arte contemporanea, le start up innovative e il personal branding....

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