Gentile Concita,

sono la mamma di Francesco, un ragazzo disabile di sedici anni, e sono un avvocato. Lo confesso subito, sin da questo incipit, perché mi rendo conto che molti dei pensieri e delle riflessioni riportate in questa lettera sono figlie del mio vissuto, personale e professionale, e non esisterebbero, almeno in questa forma, senza di esso. Un venerdì sera, ancora lavorativo, in pieno agosto, tornando a casa dall’ufficio, trovo nella chat whatsapp del Comitato Famiglie 162 Piemonte (*) (un comitato di famiglie di persone con disabilità che chiedono la concreta attuazione della Legge n. 162/98 della Regione Piemonte sulla coprogettazione e personalizzazione dei servizi per le persone disabili), una “pioggia” di messaggi tutti riguardanti l’articolo “Il valore di un selfie” pubblicato su La Repubblica nella rubrica “Invece Concita. Il luogo delle Vostre storie”.

Si narra, in questo articolo, dell’atto di vandalismo commesso da alcuni ragazzi, aspiranti influencer, che, per farsi un selfie da postare sui social, hanno distrutto una statua ottocentesca. La lettura dell’articolo mi ha profondamente indignata, oltreché ferita ed addolorata. Perché, nello stigmatizzare la condotta di questi ragazzotti, Lei non ha trovato di meglio che affibbiargli l’epiteto di “cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti prima la bocca”. Ed ancora, “Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno – e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità”.

Io penso che Lei abbia sbagliato a pubblicare queste parole per una pluralità di ragioni. In primo luogo, ha sbagliato ad utilizzare la disabilità come strumento di denigrazione a corredo del commento di un banale episodio di cronaca che, peraltro, nulla aveva a che fare con la disabilità stessa, offendendo gratuitamente migliaia di ragazzi e ragazze disabili citati, come modello, per rappresentare comportamenti penalmente rilevanti ed incivili con cui non hanno nulla a che spartire. Penso che questo (almeno) Lei l’abbia capito, vista la reazione social che le parole sopra riportate hanno sollevato e considerato l’intervento, quantomai tempestivo, del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che, a soli due giorni dalla pubblicazione dell’articolo, ha segnalato la sua condotta al Consiglio di disciplina dell’Odg del Lazio.

In secondo luogo, trovo che abbia sbagliato a ragionare per categorie e clichè (“normodotati” vs “cerebrolesi”). Un errore che ciascuno di noi dovrebbe cercare di non commettere nella vita, ma un “peccato mortale” per un giornalista, quale Lei è. Ed ancora, ha sbagliato… due volte… perché a fronte della giusta ondata di sdegno che si è innalzata, immediata, sui social, delle migliaia di mail inviate a lei e a La Repubblica, si è precipitata a chiedere “sommessamente scusa”, banalizzando però quanto accaduto, bollato come una mera questione nominalistica, di uso di un linguaggio “in un contesto molto scivoloso”, messo al bando dai fautori del politically correct “che stanno paralizzando il pensiero e l’azione”.

Ma non solo! Ha sbagliato perché non si può approcciare il tema della disabilità in modo discriminatorio (evocare le scuole differenziali, citare la presenza dell’insegnante di sostegno come elemento che sancisce l’inferiorità del ragazzo disabile), oltreché paternalistico e pietistico, descrivendo, tra l’altro, all’evidenza una realtà che non conosce (basti leggere la descrizione del ruolo dell’insegnante di sostegno assimilato ad un badante-oss–assistente, con completo stravolgimento della sua professionalità). Sa, Concita, io penso che lei possa rimediare. Come? Approfondendo quello “spicchio” di mondo (che tanto “spicchio” non è, se è vero che più di un miliardo di persone convive con qualche forma di disabilità), dando l’opportunità a molti di conoscere, tramite la sua rubrica, quanta bellezza, quanta fatica e quanta speranza c’è in tutte quelle individualità e collettività che, in diversi modi e forme, vivono e lavorano con i nostri ragazzi e con le persone con disabilità aiutandoli a realizzarsi come persone e conquistare il posto nel mondo che gli spetta di diritto.

Scoprirà che la disabilità è un mondo assai variegato e non categorizzabile per stereotipi a priori e che è, comunque, sbagliato un approccio “abilista” qual è quello sotteso ai suoi due articoli in forza del quale si propone una gerarchia tra le differenze di prospettiva esistenziale dei singoli, basate sulla cinica valutazione dei deficit fisici, cognitivi e sensoriali, assumendo come paradigma negativo chi non è neppure in grado di “pulirsi la bocca”, quando la necessità di sostegno non deve, e non può essere, un elemento di disvalore. Ci sono uomini e donne, ragazzi e ragazze che studiano e lavorano, pur con disabilità fisiche e cognitive più o meno gravi. Le sembra strano? Anche ai nostri politici lo sembra ed infatti, cadendo nel medesimo stereotipo comune dell’abilismo, si preoccupano (giustamente) nei propri discorsi programmatici di garantire che le persone disabili avranno sempre il reddito di cittadinanza, ma non si preoccupano, altrettanto, che gli siano garantiti i diritti che gli spettano nel mondo di tutti, lavoro incluso.

Vero è, invece, che intervenendo con processi finalizzati a colmare il divario tra la condizione della persona e le caratteristiche richieste dal contesto ed operando sul contesto stesso, le persone disabili, indipendentemente dalla gravità delle loro difficoltà e dalle loro caratteristiche intrinseche, possono trovare una realizzazione nella società, anche lavorativa. Lo stanno dimostrando le esperienze di alcune realtà, purtroppo ancora minoritarie, dove, attraverso la messa in campo, con la supervisione del Centro Studi per i diritti e la vita indipendente (DiVI) dell’Università di Torino, di progetti personalizzati di accompagnamento alla vita adulta, all’abitare ed all’inserimento lavorativo, alcune persone con disabilità intellettiva vivono, con pienezza e soddisfazione, nel mondo di tutti come qualunque altro cittadino.

Concita, parla di queste realtà, fai da “megafono” a queste iniziative, purtroppo ancora isolate, aiutando a sviluppare un nuovo immaginario, una nuova concettualizzazione delle persone con disabilità e della loro vita adulta, lontana dal modello dell’istituzionalizzazione, degli spazi riservati a loro, protetti e separati, del paradigma assistenziale, finanche del meritorio “dopo di noi”, affinché la persona con disabilità possa inserirsi a pieno titolo nel percorso di cittadinanza disegnato dal paradigma dei diritti, secondo quanto affermato dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Legge n. 18/2009, ma continuamente disattesa dalle politiche assistenziali e nelle pratiche quotidiane. Che si parli finalmente del “durante”, del creare le condizioni di contesto, sociali, materiali, relazionali che consentano alle persone disabili di vivere come cittadini nel mondo di tutti, auspicabilmente anche con il supporto degli operatori del servizio pubblico che devono essere chiamati, sul fronte sociale e di cura, a dar conto dell’attuazione, nel concreto, della Convenzione ONU.

Come hanno scritto la prof.ssa Cecilia Marchisio e la dott.ssa Natascia Curto (**) “l’universalismo dei diritti, che fa da sfondo alla Convenzione ONU, non è una prospettiva tecnica; esso pone di fronte una presa di posizione etica di fondo: o si pensa che le persone abbiano uguali diritti, oppure si pensa che non li abbiano. Non è possibile assumere una posizione neutrale”. Questo è un invito, dunque, rivolto proprio a lei, cara Concita, a scendere in campo e a non guardare il mondo della disabilità da lontano, senza una reale conoscenza ed esperienza, con un approccio infarcito di stereotipi e di preconcetti. Può, davvero, fare in modo che dall’indignazione che ha generato in tanti, me compresa, scorra linfa nuova e speranza di futuro, operando insieme verso un auspicato cambio di paradigma, dall’assistenzialismo alla vera, piena e completa tutela dei diritti di tutti. Un’ultima cosa. Non è vero, come Lei ha scritto, che “i cerebrolesi sono persone meravigliose”: sono, come tutti, alcuni simpatici, altri scontrosi, alcuni timidi, altri estroversi. Mi incuriosisce sapere, ma quante persone cerebrolese conosce per aver fatto questa personale curiosa statistica?

(*)Il Comitato 162 Piemonte è formato da persone con disabilità e loro familiari del territorio piemontese (ad oggi circa 250 famiglie) ed è stato costituito nel dicembre del 2016 con l’obiettivo di promuovere l’applicazione della Legge n. 162/98, l’attuazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e dei conseguenti Programmi di azione biennale cui essa ha dato origine, in particolare attraverso l’attivazione di Progetti Personalizzati e Co-progettati tra la persona con disabilità, la sua famiglia ed i Servizi socioassistenziali, per la deistituzionalizzazione, l’autodeterminazione, la vita indipendente, l’accesso al mondo del lavoro e la piena inclusione sociale delle persone con disabilità.

(**) Natascia Curto – Cecilia Maria Marchisio, “I diritti delle persone con disabilità. Percorsi di attuazione della Convenzione ONU”, edito da Carocci Faber

Monica Togliatto

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