A meno di tre mesi dalle elezioni europee, la nostra testata dedica un In/Contro alla UE. Gli autori sono gli stessi dell’appuntamento precedente, Corrado Poli e Riccardo Rossotto. Questa volta, però, più che di due opinioni divergenti, quasi opposte, si tratta di angolazioni differenti. Entrambi i contributi parlano dell’Unione Europea, non affrontando però le stesse tematiche. Anche se, personalmente, colgo nello spirito dei due articoli, visioni e giudizi contrastanti sulla UE.

Milo Goj

 

Prepariamoci alla guerra”. Il messaggio del Presidente francese Emmanuel Macron è stato preciso, non politically correct, spietato. “L’Unione Europea ha bisogno di un suo esercito”, gli ha fatto eco l’ex Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Venti di guerra soffiano dunque sulla nostra Europa che si sta appropinquando alle elezioni di giugno. Il plebiscito in Russia a favore di Putin e il tragico attentato terroristico di Mosca ci forniscono segnali sul fatto che l’uomo del Cremlino non abbia nessuna intenzione di mettersi da parte né tantomeno di modificare la sua strategia: quella di recuperare nuovi territori, invadendo stati, per ricreare il mito della grande Russia degli zar, zittendo per sempre i dissidenti.

Le affermazioni di Macron e di Juncker si inseriscono in un dibattito che sta diventando, giorno dopo giorno, più intenso e più necessario, come dimostra l’ultima riunione a Monaco di tutti i membri della Nato. Il tema non viene volutamente trattato dai leader europei nella campagna elettorale delle prossime elezioni perché non porta consenso, ma soltanto paura e angosce. In realtà la questione “difesa comune” non è più rinviabile: l’Unione Europea se vuole sedersi ai tavoli dei grandi protagonisti delle nuove geo-mappe internazionali, non può non avere un proprio esercito.

Non può fidarsi soltanto della appartenenza alla Nato, diretta quindi da una America che se dovesse vincere, come appare probabile, Donald Trump, sappiamo già che abbandonerà gradualmente il suo ruolo centrale nella difesa militare dei confini europei. Il dibattito sulla necessità di avere un esercito europeo è al centro dell’attenzione delle cancellerie, ma non delle piazze. L’argomento è spinoso e viene accantonato o sospeso in questa vigilia elettorale. La questione di una integrazione militare accompagna l’Europa sin dall’immediato dopoguerra, quando il nuovo nemico dell’occidente stava diventando l’ex alleato, la Russia di Stalin.

Il progetto di un esercito europeo risale agli anni ’50 e vale la pena oggi, settant’anni dopo, ripercorrere le tappe di quel processo che poi fallì qualche anno dopo per il diniego francese, proprio la nazione che lo aveva proposto. Facciamo dunque un passo indietro e ritorniamo a vivere l’atmosfera di quegli anni immediatamente successivi al 1945 quando stava per incominciare la cosiddetta Guerra Fredda che per fortuna, grazie anche al deterrente nucleare, non ci portò al terzo conflitto mondiale. Il tema della difesa dell’Europa divenne cruciale tra il 1949 e il 1950. La fine del monopolio statunitense sulle armi nucleari (Stalin aveva annunciato al mondo che la Russia aveva realizzato il primo test nucleare con esito positivo!), lo scoppio della guerra in Corea, avevano riacceso le preoccupazioni sulla possibilità di un conflitto armato tra l’URSS e gli USA. Washington considerava l’Europa il “ventre molle” del fronte occidentale.

Il Presidente americano Truman considerava il riarmo dell’Europa come un punto essenziale della sua politica estera di contenimento dell’Unione Sovietica. La Francia era fortemente contraria ad un eventuale riarmo tedesco e batté i pugni contro le posizioni politiche di Stati Uniti e Gran Bretagna favorevoli invece a riarmare la neocostituita Germania federale divenuta ormai il confine con il nuovo nemico russo. In questo contesto, in Francia, si pensò di abbandonare una politica mirata soltanto a contrastare un’idea strategica di riarmo della Germania voluta dagli americani e dagli inglesi: bisognava reagire con un rilancio di una proposta che da un lato tranquillizzasse i francesi nei confronti di una Germania riarmata e dall’altro individuasse una strada per coinvolgere gli altri stati europei nel controllo della nuova Germania federale di Adenauer.

L’idea di un esercito europeo fu teorizzata, dunque, per la prima volta, dal cosiddetto Piano Pleven, scritto dal Primo Ministro francese René Pleven proprio nel 1950, quando anche il nostro Ministro degli Esteri Carlo Sforza aveva dichiarato pubblicamente la necessità che l’Europa si dotasse di una forza militare autonoma non dipendente esclusivamente dalla volontà americana. Pleven pensava di estendere al campo della difesa militare, una cooperazione già esistente tra alcuni stati membri europei nell’ambito della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Proprio sull’idea di Pleven si coagulò il progetto di un esercito europeo.

Il trattato di istituzione della Ced (Comunità Europea della Difesa) venne firmato il 27 maggio 1952 da Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Germania Ovest, Italia e Francia. Avrebbe dovuto, però, essere ratificato poi dai Parlamenti degli stati aderenti. E fu proprio, paradossalmente, l’assemblea parigina a far fallire il progetto votando contro la sua ratifica. Il paese che aveva lanciato la Ced, ne decretò il fallimento. Perché? Quali furono le ragioni del repentino cambiamento di idea dei francesi? Innanzitutto nel marzo del 1953 era morto Stalin e i suoi successori sembrava puntassero ad una politica di pace o comunque di dialogo con l’Occidente.

Questo nuovo corso sovietico convinse una gran parte della classe dirigente francese a nutrire la speranza che si potesse evitare, una volta per tutte, il riarmo della Germania. Schuman era stato sostituito al Ministero degli Esteri da Bidault, da sempre scettico sull’approccio sovranazionale insito nella istituzione della Ced. A Parigi, inoltre, si doveva fronteggiare il sempre più complesso scenario in Indocina dove la situazione militare era sempre più compromessa. Nell’aprile del 1954 l’esercito francese subiva la pesante ed umiliante sconfitta a Dien Bien Phu ad opera dei vietnamiti. Cadde, di conseguenza, il governo francese e il nuovo Primo Ministro, il socialista Mendes France, anch’egli ostile al progetto Ced, diede il colpo di grazia per la non ratifica del trattato nel Parlamento di Parigi.

La Ced costituì il laboratorio progettuale in cui gli allora sei paesi membri andarono più vicini ad una vera integrazione attraverso un progetto sovranazionale con istituzioni, forze armate, un budget e programmi comuni e condivisi. Successivamente, una volta accantonata la Ced, ci furono altri tentativi di costruire un esercito comune, ma senza mai dare vita ad una vera e propria istituzione militare europea autonoma rispetto alla Nato. Nel 1992 con il Trattato di Maastricht si tornò a parlare esplicitamente di una politica comune per la sicurezza ma soltanto nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ci si accordò sull’istituzione della Pesc (Politica Europea di Sicurezza e Difesa), un organo che avrebbe dovuto coordinare le iniziative sulla difesa dei confini europei: quello che attualmente è presieduto da Borell.

La Pesc riguarda le missioni e le operazioni dell’Unione Europea nei paesi terzi ma si pone anche come obiettivo di migliorare il coordinamento e la sicurezza dei confini degli stati membri. Nel 2013, dopo i primi preoccupanti segnali delle volontà espansionistiche di Putin, i Capi di Stato e di governi dei paesi dell’Unione Europea hanno stabilito la necessità di velocizzare l’integrazione e il coordinamento della difesa condividendo progetti comuni sulla sicurezza cibernetica, marittima e militare. Si iniziò a parlare anche della necessità di una maggior cooperazione nelle filiere dell’industria della difesa per ottimizzare e razionalizzare i processi industriali di armamenti moderni e competitivi.

Visto l’atteggiamento americano, vista la tragedia dello sviluppo di conflitti apparentemente locali ma che stanno diventando globali, ormai il tema di un esercito europeo indipendente è diventato ineludibile. Certo bisogna finanziarlo e a questo proposito deve tornare a essere una priorità il tema di dar vita ad un debito comune tra gli stati membri come è avvenuto nell’emergenza pandemica. Siamo di fronte ad un’altra gravissima emergenza: una guerra che minaccia la sicurezza dei nostri confini. Ci vuole uno scarto di volontà politica per cercare di difendere il nostro territorio, le nostre tradizioni, la nostra democrazia. Bisogna ripensare al progetto Ced, attualizzandolo prima che sia troppo tardi.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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