Il solo pensare di insegnare l’‘affettività’ nelle scuole per contrastare i femminicidi, costituisce un obbrobrio culturale. Già i termini ‘femminicidio’, ‘affettività’ e ‘patriarcato’ (in questi giorni tornato di moda) richiedono qualche precisazione per non parlarne a vanvera. Anzitutto ciascuno ha una propria affettività e la dimostra in modo diverso. In più si tratta pur sempre di una relazione e quindi diventa ancora più complesso definirla. A meno che non si voglia tornare a quegli schemi fissi e rigidi che sono proprio quelli che sono stati contestati e superati dalla nuova società, quali sesso solo dopo un matrimonio indissolubile, rigidi e impermeabili ruoli sociali per maschi e femmine ecc.

C’è voluto un secolo di lotte e di elaborazione culturale per rivoluzionare una società che controllava il sesso e le relazioni tra i generi. Ma il linguaggio e gli schemi mentali non sono mutati. Al punto che oggi da destra e da sinistra si propone che lo Stato si faccia carico nientemeno che dell’educazione all’‘affettività’. Ma cosa c’è di più privato dell’affettività? E se capitasse che l’educatore fosse un libertino impenitente o un membro della comunità LGBT+? Oppure un islamico integralista o un tradizionalista cattolico radicale? Tutti assunti con regolare concorso? E se non si assumono con concorso gli insegnanti, chi li sceglie e a chi si assegna il compito di educare all’affettività i giovani? Non sarebbe una cosa che spetta alla famiglia, alle associazioni private, alla religione (per chi lo ritiene opportuno) … e in fondo a nessuno poiché la si sviluppa individualmente?

Per scoprire chi sono i potenziali violenti omicidi, basterebbe fare dei test nelle scuole e queste persone sarebbero individuate fin dall’adolescenza. O magari in seguito, sulla base di denunce. Chi risulta positivo al test, lo si potrebbe tenere sotto stretto controllo o internarlo preventivamente. Una tale ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini, la stigmatizzazione dei devianti, l’indottrinamento (poco efficace) e infine la loro eliminazione fu una politica proposta nel Novecento e in parte praticata in molti Stati occidentali. Uno Stato di polizia rinchiuderebbe le persone pericolose e violente preventivamente. Nessuno, per ora e si spera per sempre, sarebbe disposto ad accettare questa limitazione della libertà per difendersi da un fenomeno, quello dei femminicidi che riguarda meno di cinquanta persone all’anno e il dato è persino gonfiato secondo un’interpretazione estensiva della fattispecie a livello di indagini preliminari e un po’ meno di sentenze.

Chi ferisce o uccide un’altra persona – donna o uomo che sia – per futili motivi e ricevendone in ritorno un grave danno, dimostra di non sapersi controllare e di avere problemi psichici più o meno gravi. In molti casi pratica la stessa violenza su sé stesso. Anche quando sembra premeditare il gesto inconsulto o si comporta in modo arrogante, lo fa in modo approssimativo e folle. Meritano tutta la nostra pietà senza che questo ci esima dal mettere in pratica azioni per tutelarci da possibili rischi.

Persone che non controllano le proprie emozioni e una violenza connaturata ce ne saranno sempre al mondo, ma per fortuna sono poche e con qualche accorgimento si possono tenere sotto controllo agevolmente senza bisogno di uno Stato di polizia e di creare un’atmosfera di paura. Non sarà certo un’educazione impartita in astratto e genericamente indirizzata a tutti a cambiare comportamenti innati, violenti, autolesionistici. Ciascun caso è diverso dall’altro e le motivazioni non sono riconducibili a un’unica causa o classificazione. Non c’è una soluzione definitiva in grado di prevenire tutti gli atti di violenza immotivata o folle, ma si può operare per imparare a come comportarsi in certe situazioni e avere il coraggio e la forza di sopportare il dolore quando non si riesce a evitare qualche atto violento. I cittadini maturi cercano di tutelarsi dai rischi senza lasciarsi cogliere da isterie collettive (talora strumentalizzate) che provocano più danni di quanti non ne evitino.

Lungi da essere l’effetto di un presunto vigente patriarcato, il recente caso di cronaca dell’assassinio di Giulia Cecchettin è la conseguenza della fine del patriarcato (anche in questo caso sarebbe necessaria una definizione più precisa, ma accontentiamoci). I maschi non uccidono più le donne per motivi sociali come avveniva un tempo quando gli uomini gestivano il potere nel contesto pubblico. Il femminicidio ha senso, come fattispecie criminale e collegata a pregiudizi patriarcali, se si inserisce nel contesto sociale cioè se si tratta di un uomo che uccide una donna perché offeso pubblicamente dal suo tradimento, dalla sua insubordinazione e dall’umiliazione che questo gli comporta nella sfera pubblica. Mezzo secolo fa si parlava ancora, sia pure in contesti già molto marginali, di delitto d’onore.

L’offesa o il ludibrio ‘pubblici’ possono generare un disagio personale e ‘per lavare l’onta’ si può commettere un atto di violenza a cui dare rilievo pubblico. Ma oggi non si parla di questo anche se potrebbe rientrare nel femminicidio un desiderio di possesso radicato in un modo di pensare e affiancato da disturbi psichici. Tutto questo ha tuttavia origine nella sfera pubblica ed è la possibile conseguenza di un modello, per l’appunto, patriarcale di società in cui l’uomo esercitava un ruolo predominante nella società. Oggi questo non succede più e abbiamo introdotto la fattispecie criminale del ‘femminicidio’ post litteram, quando ormai non era di fatto più praticato come conseguenza di una cultura. Le donne oggi sono uccise a causa del disagio, della debolezza e della malattia mentale dei maschi, della loro disperazione e del senso di inadeguatezza e inferiorità. Le donne oggi hanno oggettivamente più successo nella società e i maschi soffrono di disagi che non sono loro riconosciuti.

La società patriarcale non esiste più da molto tempo anche se ne restano le rovine e nulla di nuovo è stato ancora costruito per sostituirla. Tra le rovine del patriarcato, regna la confusione. Si mette in discussione il dominio dei maschi, ma non quello di una società basata sul potere e sul comando (‘arcato’ deriva dal greco ἄρχων/archon = governatore). Si tratta di un modo di vedere la società e il mondo molto maschile, l’opposto di un modo di pensare che pone al centro dei rapporti una dialettica tra i generi arrivando ad auspicare nei casi più estremi persino il superamento di una visione dualistica dei generi.

Gli uomini di oggi subiscono le donne, non perché vogliono costringerle a ruoli subalterni e godere di presunti privilegi, come un tempo, ma perché sono disperati, fragili e (alcuni) patologicamente portati a una violenza che riescono a esercitare perché la natura ha dato loro più forza muscolare. Le uccidono per i motivi più vari e ciascuno diverso dall’altro, proprio perché si tratta di casi estremamente personali e così poco numerosi da non consentire inferenze statistiche rilevanti tali da giustificare considerazioni di carattere sociologico.

Eppure, del caso – estremamente privato – dell’omicidio di Giulia s’è data una copertura mediatica enorme imparagonabile a quella delle centinaia di altri casi (nel 2022, 314 omicidi 57 riconducibili al femminicidio in prima istanza) la cui fattispecie presenta caratteristiche riconducibili a situazioni molto più pubbliche e sociali. Per esempio, è stata messa subito a tacere la morte della bambina uccisa dalla Freccia Tricolore che, come scandalo sociale, non era certo di poco rilievo. Procediamo ciecamente sulla strada sbagliata se pensiamo ancora nei termini di un secolo fa. Occorre un pensiero nuovo più efficace nel contrastare un problema grave quale gli omicidi di alcune donne (e qualche uomo) a seguito di disturbi mentali. E dobbiamo fare attenzione a non criminalizzare categorie di persone invocando e alfine creando uno Stato di polizia discriminatorio nei confronti degli uomini.

Corrado Poli

Corrado Poli

Corrado Poli, docente di geografia politica e urbana, editorialista e saggista

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