Sgombriamo il campo dagli equivoci. Credo sia significativo introdurre la mia testimonianza sul Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, ancora troppe volte criticato, dal momento della sua istituzione nel 2004, quasi fosse una celebrazione di parte e non, quale è, una pagina di storia nazionale: sfugge a molti polemisti e commentatori che la cessione alla ex Jugoslavia di gran parte della regione Venezia Giulia, a esclusione di Trieste e di una piccola parte della sua originaria provincia, è stato il tributo che l’Italia ha dovuto pagare per una guerra persa da tutti gli italiani, visto che le nostre forze armate erano composte da militari provenienti dalle più disparate regioni, dalla Sicilia al Piemonte.

Popolazioni vittime sacrificali delle colpe dell’esercito italiano in Slovenia

Così come gli istriani, fiumani e dalmati, vivendo sulla linea di confine, sono state le prime e uniche vittime sacrificali delle colpe compiute dall’esercito italiano in Slovenia e nei territori dell’ex Regno di Jugoslavia, esercito comandato da generali come il modenese Roatta e il romano Pirzio Biroli. Per vendicarsi, gli uomini di Tito non sono venuti fino a Bari o a Palermo, a Napoli o a Firenze, a Roma o a Milano o Torino.

No, si sono fermati a Fiume e a Trieste e hanno fatto strame non solo dei nemici, ma anche di tutti coloro, partigiani e antifascisti innanzi tutto, che si opponevano all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. E tutto ciò anche con la complicità del Partito Comunista Italiano, ben testimoniata dalla lettera di Togliatti al Presidente del Consiglio d’allora Ivanoe Bonomi. Il segretario comunista stigmatizzava l’ipotesi che “le nostre unità partigiane prendano sotto controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell’esercito partigiano jugoslavo (…). Tutti sanno, infatti che nella Venezia Giulia operano oggi le unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti.”

Il che, palesemente, non fu

Emblematica, in questo senso, la strage del 7 febbraio 1945, quando una formazione di gappisti comunisti italiani uccisero, presso le malghe di Porzüs, 21 partigiani della Divisione Osoppo, di tendenza azionista e cattolica (tra i morti ammazzati Francesco De Gregori, zio del cantautore, e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo). I quali combattevano contro i nazifascisti, non certo per consegnare quei territori alla Jugoslavia. Gli eventi successivi, ovvero l’effettiva annessione ad essa di gran parte della Venezia Giulia in seguito al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, avrebbero travolto quel mondo abitato da persone appartenenti a etnie diverse, italiani, croati e sloveni. Popolazioni abituate da secoli a convivere in pace insieme, realtà testimoniate dall’ampia presenza sul territorio di famiglie miste: io stesso sono di famiglia italo-croata.

Un equilibrio rotto da fascismo e leggi liberticide

Un equilibrio – anche questo non va assolutamente dimenticato – la cui rottura va imputata inizialmente al fascismo e alle sue leggi liberticide, come la chiusura delle scuole di lingua croata e slovena, il divieto di parlare croato o sloveno nei luoghi pubblici, l’italianizzazione forzata dei cognomi. Una rottura che il regime di Tito, poi, seppur all’insegna di facciata dello slogan “Fratellanza e unità”, ha perpetuato con il determinato intento di ridurre, fino a sfiorare la pulizia etnica, la presenza italiana in Istria e a Fiume, così da costringere la stragrande maggioranza della stessa a lasciare la propria terra, la propria casa, il proprio lavoro, la famiglia, le tombe dei propri cari.

350 mila profughi senza riferimenti

E quella gente che se n’è andata, 350 mila persone, raggiunta l’Italia, da cui si erano rifiutate di staccarsi, hanno dovuto subire l’onta della propaganda. Da una parte di coloro, all’estrema sinistra, che li definiva fascisti, dall’altra, all’estrema destra, che strumentalizzava, in chiave anticomunista, la loro tragedia, così avvalorando ingiustamente il profilo politico di un popolo che, nella realtà, non era dissimile al resto d’Italia. E che ad essa, a questo Paese, anzi, ha dato qualcosa di più, soprattutto i tanti, tantissimi, che nonostante abbiano combattuto per liberare la loro terra dal nazifascismo, come mio padre, partigiano nella Ventesima divisione della 4a armata, comandata dal generale Petar Drapšin (da cui, poi, a Trieste, capite le vere mire di Tito, diserterà e verrà arrestato). Come mia madre, staffetta partigiana agli ordini di Vera Bratonja, che poi morirà alla Risiera di San Saba.

Gli espropri di case, terreni e propieta a nome della “Fratellanza e unità”

Come mio zio, arrestato dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Mülhdorf/Dachau, sono stati costretti a lasciare quella stessa terra. Perché la “Fratellanza e unità” di Tito era solo un imbroglio, un paravento dietro il quale si celavano mire annessionistiche e la volontà, poi realizzata, di cacciare con ogni mezzo dall’Istria, da Fiume e da Zara, indistintamente, tutti coloro che non si riconoscevano in quelle mire, per altro sottoponendosi agli espropri di terre, case, aziende. Ma fosse stato solo Tito e i suoi! In quello stesso periodo, precisamente il 30 novembre 1946 su “l’Unità” organo del PCI si leggeva “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città.

Un tratto di Storia con cui ancora fare i conti

Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi”.
I miei genitori, allora poco più che ventenni, e altre 300 mila persone, sperperarono invece delle loro ricchezze, che non avevano, dieci anni della loro gioventù nei campi profughi, in uno del quali, a Servigliano, nelle Marche, già campo di concentramento, diedero alla luce il loro unico figlio, la cui prima culla fu una cassetta di arance.

Diego Zandel

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