La fotografia è ormai da tempo che ha preso un posto importante nel mondo della comunicazione, in quanto consente nel breve volgere del tempo occorrente per uno scatto di rappresentare una situazione, un momento della storia, un personaggio.
Ritengo che ora, in questi giorni, non vi siano più parole per poter ancora dire qualcosa di nuovo o di decisivo sulla vicenda afgana, dopo che tutti i mass media hanno già ampiamente esaminato la gravissima situazione che si è venuta a creare, le evidenti responsabilità dell’Occidente e di buona parte degli stessi afgani che sono fuggiti o si sono arresi ai talebani senza neppure tentare una difesa
A me è venuto in mente, in proposito, il momento più buio della nostra storia, con la fuga del Re da Roma, nella notte dell’8 settembre 1943, senza lasciare alcun ordine ai militari.

Vorrei invece prendere in esame la situazione dei bambini, come risulta drammaticamente evidenziata dalle fotografie che sono state divulgate in tutto il mondo.
La prima, apparsa su Repubblica del 17 agosto u.s., ci mostra in primo piano una carriola portata da un uomo con all’interno di essa, seduti stretti uno all’altro, tre bambini o meglio, forse tre bambine.
I loro visi sono immobili e per due di loro, anche se non piangono, si capisce che la dominante è la paura dell’ignoto.
La foto non ci dice cosa è successo prima, ma ce lo lascia intuire: la famiglia ha dovuto lasciare la casa con tutti i pochi beni; non hanno nulla con sè eccetto un borsone portato dal padre, che conterrà forse alcuni vestiti e pochi altri oggetti; non si capisce dalla foto se il padre è da solo o vi è anche la madre (anche se in secondo piano vi è un’altra bambina, più grande ed una donna ricoperta dal velo, che camminano a pochi passi di distanza dall’uomo con la carriola).
Dei tre bambini  sulla carriola l’unica che guarda diretta l’obiettivo e, quindi, il fotografo, è la bambina più piccola, sulla destra di chi guarda.
Essa ha uno sguardo vivo ed attento e si tiene, per prudenza, con una manina al bordo della carriola.
Le altre due sorelle hanno lo sguardo rivolto verso il basso e non si vedono bene i loro occhi, sicuramente mesti e preoccupati.
La bambina in prima fila sulla carriola tiene in mano le sue ciabatte, gli unici beni che forse è riuscita a portare con sè.
E’ il quadro, in definitiva, di una famiglia e di bambini che fuggono dalla loro patria per trovare la salvezza che essa non è riuscita a garantire loro, nonostante gli sforzi, i denari e soprattutto, i morti dell’Occidente.
Anche se la bambina non si vede, perchè è voltata di spalle, è forse altrettanto drammatica la foto apparsa sempre su Repubblica del 20 agosto u.s.che la ritrae mentre, giunta alla sommità del muro dell’aeroporto, chiede aiuto ad un soldato americano che è dall’altra parte del muro, su una scala a pioli.
La bambina, con la mano destra, chiede aiuto al soldato ed è protesa sulla sommità del muro, sospinta dal basso dai genitori o da parenti (che non vengono inquadrati) e l’immagine non ci dice altro.
Anche in questo caso nulla ci dice, di per sé, la foto sulla situazione precedente e sulla disperazione di genitori che affidano ad un soldato straniero la vita della propria figlia affinchè la porti in salvo.
Così come nulla ci dice sul “dopo”: si confida che il soldato l’abbia aiutata a scendere dall’altra parte del muro per essere messa al sicuro; anche se ciò vorrà dire, probabilmente, per la bambina, non rivedere mai più quei genitori che, in un ultimo gesto di amore, l’hanno posta in salvo.
Ora, dopo aver girato le pagine del giornale possiamo riprendere i nostri esercizi di egoismo quotidiano pensando al vaccino-sì vaccino-no, all’apericena sul mare o con gli amici, a quale vestito mettere, e così via.
Le fotografie dei bambini afgani non ci disturberanno più.
Alessandro Re

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