Monsieur le Président, permettetemi, grato, per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto (così iniziava Zolà il suo ben più famoso J’accuse) di esporvi i fatti del Caso Ferragni-Balocco e alcune considerazioni che ne derivano. La cosa non si presenta per nulla facile, perché diversi aspetti si sono mescolati e, per dirla con Gadda, hanno “determinato un punto di depressione ciclonica” nella coscienza degli italiani. Senza pretendere di essere esaustivo, quattro elementi mi sembrano siano stati mescolati nei commenti che si sono letti: teoria dei media, aspetti giuridici, morfologia dei social media e aspetti culturali, aspetti che vanno affrontati e contestualizzati in maniera il più possibile indipendente tra loro, se non si vuole finire in un “garbuglio” cognitivo.

Il primo aspetto consiste nel comprendere quale funzione giocano gli influencer nel processo di comunicazione aziendale. Era il gennaio del 1731 quando a Londra veniva pubblicata la rivista da Edward Cave The Gentleman’s Magazine. Nascono i magazine, riviste periodiche che si rivolgono a un pubblico colto e che accanto ad articoli di finanza, cultura, società, svolgono una vera e propria funzione di “magazzino”, presentando prodotti e suggerendo stili di vita e comportamenti. Lo scambio economico è molto chiaro, si viene pagati per fornire suggerimenti di acquisto. Di fatto nasce il moderno “mercato delle influenze”.

I media diventano il più potente strumento di comunicazione commerciale e ben presto (Emile de Girardin, La Presse 1836) comprendono che i ricavi derivanti dalla vendita della audience a scopi commerciali sono più importanti di quelli dei contenuti. La copresenza nello stesso contesto di comunicazione commerciale e contenuti informativi crea un contesto che le aziende sfruttano per abbassare la diffidenza dei consumatori verso l’advertising (si pensi a P&G che promuove la soap opera “Sentieri”). Si è sempre fatta molta fatica, a distinguere tra comunicazione commerciale esplicita e comunicazione commerciale organica, “nativa” come oggi viene definita in ambito web.

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La prima è chiaramente identificabile, nel passato anche attraverso veri e propri segnalatori, si pensi al siparietto di Carosello, ed è relegata in ambiti e con affollamenti precisi. La seconda non è esplicita e utilizza dei testimonial, di cui sfrutta l’autorevolezza, per promuovere dei prodotti. Da sempre la comunicazione con obiettivi commerciali espliciti (advertising) utilizza testimonial, dotati di una loro vita personale e mediatica autonoma, come suggeritori e garanti del prodotto. Da Nino Manfredi ad Alessandro Del Piero la lista sarebbe lunghissima e questo ben prima dell’avvento del digitale e dei social media. Il testimonial è totalmente coinvolto nel prodotto, ma nonostante questo l’investimento emotivo è limitato perché nello schema semiologico sotteso è evidente che il contesto è quello di una comunicazione commerciale.

Ben diverso è l’impatto quando questo meta-linguaggio (“questo è un messaggio pubblicitario”) è assente e il suggerimento commerciale non è esplicito. Il caso più eclatante è stato Richard Gere che in American Gigolò passa in rassegna il suo guardaroba marchiato Armani: nasce il Made Italy. Quando Nino Manfredi si presenta in Tv in trasmissioni giornalistiche con i cardigan di Missoni o Mike Bongiorno dà i “consigli per gli acquisti”, la situazione si complica non poco e la capacità di decodifica dei meta-linguaggi da parte dello spettatore diventano decisamente più bassa.

I media che storicamente di più hanno sfruttato questa forma di pubblicità organica sono stati i magazine e oggi sono gli influencer. Il magazine utilizza la propria autorevolezza per dare “consigli per gli acquisti”, che sono veicolati sotto forma di articoli redazionali. In sé non ci sarebbe niente di male se non fosse che questi “suggerimenti” sono regolarmente acquistati e pagati attraverso l’acquisto, questo sì regolamentato, di pagine pubblicitarie. L’acquisto della pubblicità è una forma per ottenere citazioni redazionali, che essendo a più alto coinvolgimento emotivo risultano essere decisamente più efficaci della pubblicità tabellare.

Questo scambio tra presenza redazionale e presenza commerciale è talmente esplicito che ci sono strumenti di misurazione sia per la pubblicità sia per le citazioni redazionali. Gli influencer sono la versione contemporanea, digitale e social, di questa pratica di utilizzo della “autorevolezza” per suggerimenti di acquisto. Fornire dei consigli e dei suggerimenti non è riprovevole, tutti abbiamo bisogno di una guida per orientarci nei tanti mondi con cui entriamo in contatto (moda, viaggi, cibo, tecnologia, giardinaggio…) e i media svolgono questo lavoro per cui è giusto che siano remunerati.

Per cui quando l’AGCOM nei giorni scorsi ha inquadrato gli influencer come un media ha posto fine a un vulnus normativo. Semmai è criticabile il fatto si averlo fatto in ritardo, sotto la spinta degli eventi, e a non aver preso in considerazione altri media (i magazine per esempio) che “vendono le influenze”. A complicare ulteriormente la questione Ferragni è la natura della promozione. C’è un profilo legale, una ipotesi di truffa, su cui non ha alcun senso esprimersi essendo responsabilità degli organi inquirenti.

Posso solo segnalare che non mi risulta si sia mai detto che sarà devoluto “una parte” del ricavato, ma semplicemente che si contribuiva a una azione benefica. Generalmente tutte le campagne benefiche, dai tempi di “Missione Bontà” di Dash, stanziano un budget che le aziende devolvono all’ente beneficiante.  Un’ultima considerazione riguarda i profili di responsabilità della promozione che è tutta in capo all’azienda; gli influencer fino alla recente diposizione dell’AGCOM non erano nemmeno equiparati ai media. Le “scuse” di Ferragni vanno pertanto interpretate più come un tentativo di proteggere la propria audience che di tamponare una chiamata di responsabilità.

Indignarsi, perché si è veicolata una operazione commerciale attraverso una donazione benefica, una pratica di marketing forse discutibile ma sicuramente diffusa, significa non aver colto la vera natura dei social, che (come si spiega in “Polarizzazioni”, nello lo studio più completo e scientificamente valido, pubblicato da poco, da Walter Quattrociocchi) sono nati “per vendere non per informare”. Semmai quello che non si comprende è perché per anni non abbiamo avuto nulla da dire su queste pratiche e improvvisamente c’è stato un sollevamento di massa, che ha provocato un allontanamento, almeno momentaneo, delle aziende da queste pratiche di Csr (Corporate social responsibility). Il che finisce per danneggiare anche gli enti beneficianti.

Il comportamento delle persone sui social è caratterizzato da fortissime “dualismi e dicotomie”. Echo chamber, scorciatoie, hanno determinato dei cortocircuiti emotivi e cognitivi, che hanno reso impossibile ogni disamina seria del fenomeno. Gli algoritmi tendono a premiare questi comportamenti polarizzanti e divisivi perché aumentano l’audience e le reazioni sono state spropositate. Ma la vera domanda è: cosa ha trasformato una questione di marketing in un problema sociale (precedente nella storia italiana era stato così solo il referendum sulle telepromozioni)?

Preciso che mentre sugli aspetti finora sviluppati le mie competenze e il mio CV mi permettono di esprimere un parere competente, magari non condivisibile, ma sicuramente informato, su quest’ultimo punto esprimo solo una opinione personale senza pretendere di avere alcuna preminenza sulle altre opinioni. Le reazioni tese a colpire più la persona accusata di “essersi fatta i soldi” sfruttando i propri follower, invece di cogliere la positività imprenditoriale di chi ha saputo costruire un business e un’impresa, comprendendo e sfruttando i social che erano la nova tecnologia emergente, hanno dato sfogo a una invidia sociale, un sentimento anticapitalistico tipico della nostra nazione, che non perdona chi ce l’ha fatta.

I dati sono la tecnologia del XXI così come la meccanica e l’elettronica lo sono stati per il XX. I social sono quello che è stata l’automobile pe il secolo scorso, avere la capacità di sfruttarli e costruire un business va apprezzato perché costruisce valore. Sempre quando una nuova tecnologia rivoluziona i processi produttivi si impone una nuova classe di imprenditori che scalza i vecchi. È successo così con le auto, succede oggi con il digitale. Purtroppo, la nostra propensione per la rendita ci porta ad avere un occhio di riguardo nei confronti di chi proviene dall’establishment e a essere feroci nei confronti di coloro che, magari partendo da condizioni simili alle nostre, sono riusciti ad avere successo. “Questo articolo è lungo, signor presidente, ed è tempo di concludere”.

J’accuse chi è intervenuto senza aver compreso come funzionano i media digitali

J’accuse chi ha accettato per anni gli influencer della carta stampata e li condanna sui social

J’accuse chi ha frainteso la natura delle promozioni aziendali

J’accuse chi ha bloccato le attività benefiche a fine commerciale

J’accuse chi non accetta che dei giovani “nessuno” possano farcela

J’accuse l’anticapitalismo populista endemico della nostra nazione

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è amministratore delegato di Campus (Gruppo Class) e direttore scientifico del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e...

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