Non sono granché appassionato di cinema. E nemmeno di Nanni Moretti. Avevo però visto “Santiago-Italia” e mi aveva folgorato. Penso che dovrebbe essere proiettato nelle scuole. Gli studenti, i nostri giovani, sarebbe bene vedessero l’Italia di allora e la confrontassero con quella di oggi. Due Paesi incommensurabili, da chiedersi cosa sia successo. Nell’attesa della proiezione di “Quando” è stato proiettato il trailer di “Il sol dell’avvenire”, ultimo film di Nanni Moretti.

Incuriosito, sono andato a vederlo

Contento di averlo visto sono tornato a rivederlo. Mi intriga il mondo di sinistra che si arrovella sul passato, s’interroga affannosamente sul presente. Sul futuro si mette le mani nei capelli. Il film di Nanni Moretti consiste nella storia di un film dentro il film. E’ profondo, evocativo, surreale. E’ propositivo come solo un’idea surreale può essere. Siamo realisti, vogliamo l’impossibile. Giusto? Giusto. Gli sguardi di Moretti trafiggono e sventrano.
Margherita Buy l’ho trovata – per la prima volta – bellissima nella delicatezza del suo stupore, nella levità dei suoi sgomenti. Lo confesso: nei passaggi più criptici e ruvidi del “recitare se stesso” di Moretti qua e là mi sono riconosciuto.

Una svista? Chissà

Si irrita quando sul set, ambientato nel 1956, gli casca l’occhio su qualche piccolo oggetto moderno (una cuffietta, una sigaretta elettronica …). Tuttavia, in alcune sequenze compare una Fiat 600 D II serie beige, la cui produzione è iniziata nel 1964. Una svista? Chissà. Forse un messaggio: la pagliuzza e la trave. Il film ha molte facce. Il dibattito che avviene dentro “il film nel film” è illuminante. È un film d’amore? Si. È un film sulla fine di un amore? Anche. È un film sulla crisi del Cinema? Certo. È un film politico? Certissimo. Bella la sfida, il guizzo di voler fare la storia con i “se”. La storia non si fa con i “se” però con i “se” si può narrare.
Così è stato ricordato in una bella serata dedicata alla morte di Aldo Moro e Peppino Impastato.

La dottrina del Partito

Nanni Moretti la prende larga, ma ha la precisione di un tiratore scelto. Parte dal Partito Comunista Italiano e dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. La dottrina del Partito, il dogma della fedeltà al mito dell’Unione sovietica da una parte. Dall’altra il cuore palpitante della libertà e l’evidenza dei fatti. Ho rivisto, recentemente, in televisione un dibattito tra Indro Montanelli, fresco reporter dei fatti di Ungheria, e un ingessato e impacciato Pietro Ingrao. Quest’ultimo intento a cercar di scovare “pezze” per sbiadire l’invasione.
Penso tra me e me – iperbole – ad un Partito Comunista Italiano limpido, obiettivo, libertario. Neanche con i fatti di Praga del 1968 è riuscito ad esser tale. Penso alla radiazione del gruppo de “Il Manifesto”. Pietro Ingrao nella sua autobiografia ha ammesso che sia stato un grave errore politico.

Secondo me non è stato solo un errore politico: è stata la manifestazione di una mentalità dogmatica e ottusa. Se il PCI non fosse rimasto avviluppato ancora per tanti anni nella logica della “fedeltà all’Unione sovietica ad ogni costo”? Se avesse riconosciuto che la “forza propulsiva della rivoluzione d’ottobre” era stata distorta nel socialismo reale sovietico?
Se non avesse mantenuto un’accigliata censura quando le forze fresche della sinistra giovanile additavano seccamente l’URSS come una spaventosa dittatura burocratica?
Forse tutto il clima dentro (ma anche attorno) la sinistra sarebbe stato diverso.
Meno diffidenza verso il Partito Comunista Italiano, maggior capacità di quest’ultimo di dialogo e comprensione di cosa accadeva alla sua sinistra.

Oscuro episodio di cronaca?

Penso all’orribile posizione assunta dal Partito e da l’Unità sui fatti di Bologna e nei confronti di tutto il movimento del 1977. E l’atteggiamento del PCI e de l’Unità su un fatto così chiaro e grave come l’assassinio di Fausto e Iaio il 18 marzo 1978 a Milano? “Oscuro episodio di cronaca”. Tutti zitti: il “grande timoniere” stava appoggiando dall’esterno il governo Andreotti tessuto da Aldo Moro. Ma studenti, operai e gente del quartiere e di tutta Milano non hanno avuto bisogno della benedizione del “grande Partito Comunista di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Con in testa la domanda collettiva “ma cosa c’entra il primo con gli altri tre?” siamo scesi in piazza in 100.000. Quel giorno e quel funerale indimenticabile al Casoretto. Ecco si, mi piace pensare alla storia con i “se”.

In fondo è un po’ come sognare

E senza sogni cosa ci rimane? Già sento una grandinata di commenti. “Ma senza il PCI non sarebbero state approvate le 10 leggi che hanno cambiato il volto del Paese dal 1970 al 1978”. Certo. Ma io non sto lavorando con i “ma” ma con i “se”. Forse se la storia fosse andata come nel film di Moretti la sinistra sarebbe riuscita ad essere più unita, anzi ad essere finalmente unita. Unita in un percorso libertario, creativo e progressista che forse avrebbe “tenuto” meglio in questo paese. Che forse avrebbe tenuto meglio questo Paese. Certo, siamo stati e siamo un paese a democrazia limitata, lo sappiamo. Ma forse i valori costituzionali sarebbero stati veicolati sotto pelle in modo diverso e più convinto. In modo più profondo e duraturo. Forse tanti tragici equivoci di questi ultimi decenni sarebbero stati neutralizzati.
Forse tanti “delitti perfetti” storici e concettuali non avrebbero avuto terreno tanto fertile.
E forse non saremmo qui a dover discutere di presidenzialismo.

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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