Durante i più cruenti conflitti bellici nella storia dell’umanità, c’è sempre stata una fase in cui le parti in guerra si sono mosse in funzione di una possibile trattativa di pace. Qualsiasi guerra ha un inizio e una fine, per definizione: il problema è individuare le condizioni per cui l’armistizio o la pace finale trovino il consenso dei contendenti. Nel corso degli ultimi due secoli, un ruolo importante nell’offrire alle parti di un conflitto un sito terzo, indipendente, neutrale lo hanno svolto o delle nazioni come la Svizzera, tradizionalmente non schierata in nessuno scontro militare, oppure lo Stato del Vaticano, considerato sempre un luogo al di sopra delle parti, pacifista per definizione, e comunque cultore di una tradizione e professionalità nel campo delle negoziazioni internazionali, apprezzate in tutto il mondo.

In Svizzera si sono tenute molte delle trattative relative a possibili accordi di pace sia durante sia alla fine della Prima o della Seconda Guerra mondiale. Non dimentichiamoci che proprio al termine del primo conflitto, sull’onda della visione alta e per alcuni utopica del Presidente americano Wilson, proprio a Ginevra fu costituita ed ebbe poi la sua prima sede istituzionale, la Società delle Nazioni (ancora oggi il palazzo della Società delle Nazioni ospita una delegazione dell’Onu e cioè dell’Organizzazione che ha preso il testimone dalla Società delle Nazioni, alla fine della Seconda Guerra mondiale, per portare avanti il ruolo di gestione e coordinamento delle relazioni pacifiche degli Stati aderenti).

Negli ultimi trent’anni molti dei conflitti locali in Medio Oriente, in Africa o nell’area calda intorno all’Afghanistan, hanno visto sedersi i rappresentanti delle parti in guerra a dei tavoli di pace proprio a Ginevra o a Zurigo, nell’ottica di porre fine alle carneficine. La Santa Sede si rese invece protagonista, in maniera molto più sobria, diplomatica e poco mediatica, di altri importanti interventi mediatori per porre fine a delle pericolose crisi internazionali. Due momenti topici furono la pacificazione di una storica conflittualità tra Argentina e Cile che rivendicavano la proprietà di certe aree dell’estremo sud dell’America latina; oppure, e il ruolo del Pontefice si seppe soltanto  molti anni dopo, quando, nel 1962, durante la crisi dei missili russi a Cuba, che fece tremare il mondo per il concreto rischio di una Terza Guerra mondiale combattuta con armi nucleari, per una intuizione visionaria di Papa Giovanni XXIII, si innescò un processo negoziale che portò Mosca e Washington, Krusciov e Kennedy, a trovare un nuovo tipo di relazione politica e diplomatica non più da nemici.

Ebbene, oggi, di fronte a due conflitti militari che definire “locali” mi sembrerebbe surreale, lo stato che ha svolto e sta svolgendo il ruolo di paese ospitante delle trattative di pace, con riferimento soprattutto alla crisi del Medio Oriente, è il Qatar. Uno stato del Golfo, uno dei grandi produttori di petrolio, uno stato che soltanto fino a cinquant’anni fa rappresentava un regno piccolo e semi-sconosciuto, marginale all’interno delle grandi monarchie petrolifere del Golfo. Le cose sono cambiate nella seconda metà degli anni novanta quando l’ex emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani decise di sostenere tutti i progetti mirati a valorizzare l’enorme giacimento di gas (allora considerato il “parente povero” del petrolio) posto al  largo delle coste qatariane.

In tal modo il Qatar è diventato agli inizi del III millennio il più grande esportatore al mondo di gas liquido e il suo Pil è passato da 8 a 192 miliardi di dollari. Potendo contare su tali enormi risorse, l’emiro ha avviato un programma di trasformazione dell’immagine e della reputation del Paese a livello mondiale: oggi il Qatar significa lusso, innovazione, cultura e intrattenimento sportivo. La famiglia reale è diventata uno dei più importanti investitori nel mondo con un patrimonio detenuto dal fondo sovrano, la Qatar Investment Authority, stimato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari.

Oggi molti marchi dell’industria della moda come Chanel e Valentino sono detenuti in parte dal Qatar. Stesso discorso vale per lo sport dove l’emiro ha comprato, ad esempio, la squadra di calcio del Paris Saint Germain. A Doha è nata una delle più importanti televisioni non solo del mondo arabo, ma dell’intero pianeta: Al-Jazeera. Dal 1997 questa televisione è diventata un punto di riferimento per il confronto e l’analisi di come si stia sviluppando nel mondo la classe dirigente dei paesi mussulmani. In questo boom attraversato dal Qatar esistono però delle contraddizioni a volte incomprensibili.

In Qatar esiste la più grande base militare americana nell’area del Golfo. Quindi, una circostanza, che farebbe presumere una stretta alleanza tra l’emiro del Qatar e gli Stati Uniti: la realtà è invece diversa, addirittura opposta. Il Qatar, infatti, negli ultimi anni, più o meno ufficialmente, ha finanziato diversi gruppi di terroristi internazionali compreso Hamas e gli Houthi. Ospita, a Doha, sia i rappresentanti di Hamas sia, ad esempio, l’ex Presidente afgano, esule dal proprio paese da quando Biden decise il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Dunque, Doha ospita un esponente politico anti talebano, pur avendo espresso più volte simpatie per il movimento talebano. Quando negli ultimi mesi ho chiesto ad amici americani e stranieri quali fossero le ragioni di questa “centralità” del Qatar nel complesso e contraddittorio mondo delle relazioni internazionali in questo delicatissimo e pericoloso contesto del 2024, nessuno mi ha risposto in  maniera precisa e completa.

Si sono limitati tutti a dirmi che era necessario trovare un paese, accettato da tutte le parti in causa, come indipendente e neutro rispetto alle parti in guerra, per provare ad instaurare un tavolo negoziale che portasse alla tanta auspicata tregua d’armi prima e alla pace poi. Sui giornali di questi giorni è apparsa la notizia che anche il Presidente turco Erdogan si è candidato ad ospitare in Turchia il vertice dirigenziale di Hamas, evidentemente diventato un “ospite pesante” anche per gli emiri qatarini. Proprio in questi giorni, su iniziativa del governo di Berna, si terrà una conferenza internazionale in Svizzera per rilanciare i progetti di pace nel mondo con la candidatura proprio della Svizzera come sede delle nuove trattative. Insomma, lo scenario è in movimento ma restano i dati di fatto che ci rendono faticosa la comprensione di come il Qatar possa aver assunto questo ruolo di stato indipendente avendo in realtà delle condotte fortemente schierate in modo ondulatorio tra le parti contrapposte.

Ho trovato interessante una nota del Wall Street Journal che ha intervistato proprio su questi temi l’ambasciatore qatariota negli Stati Uniti, Meshal bin Hamad Al-Thani che ha confermato che il governo di Doha versa alcune centinaia di milioni di dollari l’anno per la popolazione di Gaza ma lo fa per  motivi umanitari e con il consenso di Tel-Aviv e di Washington! Inoltre ha letteralmente dichiarato: “L’ufficio politico di Hamas in Qatar è stato aperto nel 2012 dopo una richiesta americana di stabilire linee di comunicazione indirette con Hamas. L’ufficio è stato spesso utilizzato negli sforzi di mediazione, aiutando a ridurre i conflitti in Israele e nei territori palestinesi. La presenza di un ufficio di Hamas non deve essere confusa con una approvazione”.

La stessa Israele ha riconosciuto il ruolo di mediatore di Doha per gli ostaggi già rimessi in libertà, definendo cruciali i suoi sforzi diplomatici. Ma perché il piccolo e ricchissimo emirato sembra giocare sempre un ruolo ambiguo o doppio Sempre il Wall Street Journal ha provato ad articolare delle risposte: (i) la dinastia degli Al-Thani è vicina al movimento dei Fratelli Musulmani e appoggia una lettura integralista dell’Islam che si concretizza nelle contraddizioni di una società per certi versi aperta all’Occidente (la base americana nel suo territorio) ma che continua a non rispettare molti dei diritti fondamentali delle società occidentali.

(ii) L’ambizione del Qatar è di assumere una posizione chiave dal punto di vista politico e strategico a dispetto delle sue ridotte dimensioni territoriali: di qui il grande shopping in tutto il mondo per l’acquisto di importanti gruppi industriali e finanziari. (iii) L’emiro sostenne i moti delle primavere arabe e tale scelta portò a forti tensioni con i paesi vicini: stesso ragionamento vale per i legami con i talebani. Fu importante il ruolo di Doha per le trattative per il ritiro Usa dall’Afganistan. Secondo Claudio Del Frate che ha recentemente scritto un reportage sul Qatar: “Doha non punta ad una escalation del terrorismo anche se probabilmente non ama Israele. Vede però nelle crisi internazionali delle occasioni per aumentare il proprio ruolo e mantenersi in una posizione di difficile equilibrismo”.

Un altro aspetto di questa vicenda apparentemente incomprensibile è costituito dalla circostanza, palese e non contestata da nessuno, che i capi di Hamas che vivono tranquillamente a Doha, hanno messo da parte dei patrimoni personali nell’ordine delle decine e decine di milioni di dollari. Quando sui giornali di tutto il mondo si legge che questi sono soldi che arrivano dagli aiuti che il popolo palestinese ha raccolto nel mondo da parte di sostenitori della causa del OLP, nessuno osa alzare la mano dicendo che una gran parte di quelle risorse economiche non sono mai finite nelle tasche dei poveri palestinesi ma hanno semplicemente arricchito gli alti dirigenti dei movimenti più o meno terroristici.

Ma come mai l’emiro continua ad ospitare i capi di Hamas che negli ultimi anni hanno accumulato delle autentiche fortune personali? Anche qui le risposte sono complesse: è stupefacente leggere in una recente inchiesta del magazine pan-arabo Asharq Al Awsat che  in tutta la Striscia di Gaza i milionari in qualche modo riconducibili al movimento di Hamas sono circa 600. Un vero controsenso se pensiamo ai 2,3 milioni di abitanti in quello che è considerato uno dei territori più poveri di tutto il mondo, con una disoccupazione superiore al 60% e un reddito pro-capite, secondo la Banca mondiale, di appena 1.257 dollari, 1/4 di quello dei palestinesi della Cisgiordania governati da Fatah.

Ma come si è costruita questa enorme ricchezza “di pochi”? Ce lo spiega proprio la ricerca della rivista araba: la ricchezza è arrivata con la “metropolitana” di Gaza, la vasta rete di tunnel sotterranei che nel tratto che esce dal perimetro della Striscia verso l’Egitto serve, o meglio oggi bisognerebbe dire serviva, da passaggio per ogni commercio. Di fatto, un contrabbando sul quale la dirigenza di Hamas ha messo una tassa del 20-25%. E non solo, come ha scritto Marco Ventura sull’Avvenire: “Altro denaro è arrivato dalle eredità, dai fondi di carità, dalla zaka, ossia le donazioni che sono uno dei cinque pilastri dell’islam e dai finanziamenti di altri paesi arabi: Siria, Arabia Saudita, Iran e proprio Qatar”.

Il Jerusalem Post ha recentemente riportato informazioni originate dall’Intelligence israeliano per cui tra il 2000 e il 2018 Hamas ha ottenuto il controllo diretto di 40 aziende commerciali situate in paesi “amici”. Il valore degli asset di proprietà del movimento palestinese, secondo alcune stime, ammonta a oltre 500 milioni di dollari, frutto anche di riciclaggio di denaro, di corruzione e di evasione fiscale. In conclusione, siamo di fronte ad una “marmellata” incomprensibile, a situazioni e fenomeni di rara complessità e di difficile decodificazione. Contesti in cui si combinano e si miscelano la Real Politik delle diplomazie internazionali, gli interessi e gli arricchimenti privati di molti protagonisti, i segnali delle nuove alleanze degli Stati che stanno competendo tra di loro per assumere un ruolo nelle Geo-mappe del nuovo mondo post-bellico… quando ci sarà!

Euro

Euro

Con lo pseudonimo Euro, si firma uno studioso italiano, apprezzato per la sua competenza nella politica internazionale, oltre che nelle questioni economiche e di diritto riguardanti l'Unione Europea

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