Da quando è deflagrato, il caso LegalShow – dc_legalshow – ha avuto se non altro un merito. Quello di sbrinare i salotti di domini e dominae torinesi, unici luoghi del globo terracqueo dove ancora l’ineluttabilità del cambiamento climatico sembrava sospesa. A ottenere questo apprezzabile effetto è stata una manciata di video e immagini su Instagram, la più sessista e moralista piattaforma social attualmente esistente. Quella, per intenderci, che censura opere d’arte con capezzoli femminili in vista. Mi pare la misura più eloquente del bicchiere d’acqua dove rischia di affogare chi si ostini a prendere di punta la vicenda. La quale sarebbe già ridimensionata, se gli organi di autogoverno delle professioni legali torinesi (e non solo) non avessero involontariamente finito per darle enorme visibilità. 

Una visibilità involontaria

Sotto il profilo del marketing, il caso non ha alcun interesse, né scientifico né folkloristico. La cifra estetica e la strategia adottate sono talmente note e comuni da essere entrate da tempo nel patrimonio del senso comune e della cultura pop. L’assenza di competenze comunicative professionali dietro al progetto, inoltre, è così smaccatamente evidente che i testi, le immagini e i video – più che la trasposizione Instagram di Suits (la serie Netflix cui le avvocate vorrebbero ammiccare) – finiscono per risultarne la parodia casereccia. Un fritto misto piemontese di pose da reality tv, ostentazione del lusso tipo Gomorra – La serie ed espedienti da casa Ferragnez

Se sotto il profilo della pubblicità il caso è privo di valore, lo stesso non si può dire per quella branca della sociologia che studia la cultura, i valori e le norme. Il Legal Show ci parla così tanto di questi aspetti che, fossi nell’Ordine e nelle scuole di preparazione all’esame di Stato, lo userei apertamente. A che scopo?Formativo (nei confini di una riflessione pacata e avalutativa, ça va sans dire), ricavandone almeno un paio di lezioni. 

Il tempo dei moralismi è finito da un pezzo

La prima è che il tempo dei moralismi è finito da un pezzo, checché ne pensi l’aristocrazia del foro. Moralismo fa rima con paternalismo, e il paternalismo ha tre difetti imperdonabili per l’epoca in cui viviamo: è maschio, è boomer, giudica. Anche quando si ammanta di ipocrita volontà di offrire un bonario consiglio. 

Non è più il tempo della predica o della censura, soprattutto se intaccano il bisogno di autodeterminazione e riconoscimento dell’eccezionalità di ogni singolo homo sapiens del pianeta. I Catoni ancora a piede libero sappiano che chi si ostina a provarci ne esce con le ossa rotte dalla gogna social. E questo anche quando ha la stazza di Golia (ammesso che il gigante, nelle tenzoni online, continui a essere il vero cattivo…).

Le piattaforme social hanno rotto gli argini

Non è concesso a nessuno, genitore, docente, partner, attore, rockstar, politico, medico, avvocato, giudice o pontefice di intaccare l’intreccio inestricabile di bisogni identitari di tipo estetico. Ma anche simbolico e ideologico, che la popolarizzazione dei social media consente a chiunque di reclamare. 

Le piattaforme social hanno ormai rotto gli argini che il mondo di prima, quello degli ordini, delle istituzioni e dei media tradizionali, avevano aristocraticamente eretto a tutela della propria auto-legittimazione. La liberalizzazione del flusso della comunicazione mediata è parte centrale del modello di business di Zuckerberg, Bezos & co., dunque necessaria per definizione.

Da spettatore a emittente

Nel frattempo, alcuni miliardi di individui sono stati educati all’uso intensivo di piattaforme proprietarie per produrre e condividere contenuti un tempo ritenuti privati. Convinti che tale esibizione di sé sia estremamente profittevole, non tanto sotto il profilo economico, quanto relazionale e reputazionale. Basta un account su uno di questi servizi online per smettere i panni di spettatori passivi e indossare quelli di emittenti, propagatori di trilioni di messaggi autoprodotti o, come si usa dire oggi, influencers.   

La seconda lezione riguarda il tema della reputazione dell’esperto/a e del (dis)credito che il comportamento di un singolo può gettare sul gruppo sociale d’appartenenza. Mi riferisco a ciò che ha spinto l’Ordine degli Avvocati di Torino a convocare le avvocate, non appena il loro profilo Instagram ha cominciato a fare il giro dalle chat di colleghi e giornalisti.

Alla fine un inevitabile nulla di fatto

Un’udienza che non poteva che concludersi con un nulla di fatto. Per la gioia di molti e la stizza di altrettanti (i social, ormai, rendono qualsiasi argomento un derby, si chiama effetto di polarizzazione delle echo chambers). Perché il mondo è cambiato e molto di ciò che era si è perduto. A cominciare dal fatto che non più dal decoro né dal timore reverenziale l’utente social trae incentivi per valutare la qualità di un professionista online. 

L’iniziativa Demichelis-Cau trasferisce la popolarizzazione della conoscenza esperta avviata dal modello dell’avvocato-discount alla Saul Goodman nella cosmologia di Instagram e dei suoi filtri. Quassù, le rigide definizioni di decoro, senso del pudore e rettitudine si infrangono come alcune delle leggi della meccanica newtoniana al cospetto della relatività einsteiniana.

Ma quindi come si deve misurare la reputazione?

Fuor di metafora, rotti i vincoli un tempo imposti dai processi di selezione delle élite tipici del sistema mediatico tradizionale, nel nuovo contesto interattivo in cui siamo immersi si sono rapidamente formati eserciti di opinion leaders del selfie. La cui reputazione non si misura dal lignaggio d’appartenenza, né dal nome roboante dello studio con cui collaborano ma con indicatori quantitativi di gradimento (visualizzazioni, like, condivisioni, commenti, sentiment ecc.).

La sociologia non esprime giudizi, cerca di dare un senso ai fatti sociali, all’interno di una cornice epistemologica rispettosa del dato empirico. Ma altrettanto aperta all’idea che non esiste un solo modo di intendere ciò che è (o appare) condivisibile, logico, razionale. Non sarò io, pertanto, a dire se la fine dei moralismi sia un bene o un male o una sfumatura là in mezzo.

D’altro canto, comunque la pensiate, non occorre lo sguardo di un sociologo per riconoscere nel dc_legalshow solo il primo sintomo di un fenomeno più profondo. Peraltro da tempo palese in altri contesti lavorativi. Affrontarlo proattivamente, con approccio multidisciplinare e scevro di pregiudizi, dovrebbe essere una delle priorità di chi ha la responsabilità del governo delle professioni legali.

Giuseppe Tipaldo

Giuseppe Tipaldo

Ricercatore e docente universitario dell'Università di Torino. Fondatore di Quaerys. Autore del libro "La società della pseudoscienza".

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