Gli anni che stiamo vivendo sono un plesso storico e sociale: il mondo sta evolvendo in modo così rapido che tutte le componenti della società devono capire come “intrecciarsi” in modi nuovi.

L’Impresa Riformista, il nuovo libro di Antonio Calabrò (di cui riportiamo per gentilezza dell’autore una parte), ci aiuta in due passaggi fondamentali. Primo, ci offre una sintesi dell’evoluzione che stiamo vivendo, mettendo insieme innumerevoli spunti organizzati e spiegati, passando da Aristotele ad Harvard, dall’etica mercantile alla fabbrica moderna. Secondo propone una rinnovata visione dell’Impresa come luogo di appartenenza e integrazione e come motore sociale di cambiamento e di miglioramento.

L’Impresa Riformista definisce la visione europea dell’impresa come soggetto positivo e sociale, ma soprattutto soggetto che partecipa con una sua autonomia e posizione allo sviluppo della società. Negli Stati Uniti l’impresa è un fatto privato e di profitto, in Cina è un fatto politico e strumento di pianificazione; in Europa può essere soggetto riformista.

Bernardo Bertoldi

(Docente di Family Business Strategy, Università di Torino– bernardo.bertoldi@unito.it)

 

L’impresa è uno dei pochi ascensori sociali ancora attivi

L’impresa, pure da questo punto di vista, è uno dei pochi ascensori sociali che restano in un paese in cui pesa, contro la mobilità di redditi, condizioni e aspettative, la frattura del patto generazionale aperta nella prima metà degli anni Ottanta: le nuove generazioni stanno peggio di quelle precedenti, che hanno scaricato loro addosso il peso crescente del debito pubblico, per non mettere mai in discussione con riforme lungimiranti i propri status di vita e i comodi assetti di equilibrio sociale. Anche le tendenze conservative di corporazioni e clientele ostacolano significativi ricambi di posizioni, redditi, influenze, poteri. L’Italia è un paese bloccato, quasi immobile, come certificano da anni i Rapporti del Censis, sensibili termometri delle ansie e delle aspirazioni nazionali.

In fabbrica, nelle aziende hi-tech, nelle imprese di respiro internazionale, invece, si fa spesso carriera perché si è bravi e capaci, lungimiranti e appassionati. Il diventare da dipendente imprenditore, da impiegato manager d’alto livello, proprio grazie alle competenze acquisite, all’intelligenza applicata al proprio mestiere, alla volontà di lavoro, è un’altra possibilità per chi vive nel mondo dell’economia d’impresa.

Un valore, oltre che un’opportunità. Se si deve competere su mercati selettivi, anche la selezione interna del capitale umano ne è strumento essenziale.

L’impresa è inclusione. Lo è stata nelle stagioni del boom economico, quando, proprio nelle grandi e piccole fabbriche del Nord, centinaia di migliaia di uomini e donne, abbandonata la povertà provinciale e contadina del Sud e del Nord-Est, hanno vissuto le nuove dimensioni dei diritti e dei doveri. E lo è stata pure nei duri anni Settanta dei conflitti sociali, educazione anche aspra a un mondo in cambiamento.

L’impresa è un luogo essenziale d’istruzione, formazione, cittadinanza.

E ancora oggi sono proprio le fabbriche a rappresentare le strutture d’integrazione più favorevoli per migliaia di immigrati extracomunitari arrivati in Italia in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita.

Un dato per tutti, a riprova, su Milano e la Lombardia industriale come paradigmi d’accoglienza: «Nel 2016 l’82% della popolazione immigrata era in una situazione regolare e lavorava nel settore formale», documenta l’Ocse nel suo Rapporto annuale sulle migrazioni presentato a Parigi il 20 giugno 2018.

La sintesi è chiara. L’impresa è reddito, lavoro, benessere. Luogo dell’identità e dell’appartenenza. E motore sociale del cambiamento e del miglioramento. Strumento di crescita economica e, più in generale, di sviluppo. Un attore consapevole dei processi di innovazione che dall’economia si allargano alla società. «Non c’è ripresa senza impresa», è stato a lungo uno slogan di successo di Confindustria. Adesso, in tempi di crisi degli assetti tradizionali delle democrazie liberali e delle relazioni tra democrazia e cultura di mercato, l’impresa può rivelare di sé caratteristiche che vanno anche oltre le dialettiche economiche. Essere cioè lievito di nuovi equilibri sociali.

Ecco perché «l’impresa riformista». L’impresa come soggetto «politico» attivo. «Politico», vale la pena chiarire subito, nel senso della policy (i progetti, i programmi generali, le strategie economiche, sociali, culturali) e non delle politics, gli atti concreti di governo, amministrazione, controllo, attuazione di riforme. Non certo «un partito delle imprese», nemmeno nella forma del «partito irresponsabile» che non va alle elezioni ma comanda e determina la politica. Ma l’impresa come soggetto che vive nella società, contribuisce a determinarne le trasformazioni, può influenzare positivamente l’evoluzione migliore degli equilibri sociali. L’impresa, non soltanto i singoli imprenditori. Da ascoltare, dunque. Tenere in seria considerazione. Non ostacolare, nei suoi processi di costruzione di lavoro e sviluppo.

C’è, purtroppo, da tempo, un diffuso clima anti-imprese, che cresce nel paese e trova alimento in ambienti di maggioranza e di governo. Un clima sbagliato, che non va affatto in direzione degli interessi di fondo dell’Italia.

(Estratto dal libro di Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, L’impresa riformista- Lavoro, innovazione, benessere, inclusione, Bocconi Editore)

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