Nel mio ultimo editoriale avevo reso omaggio alla decisione del Governo Meloni di incrementare le pensioni, a partire dal primo gennaio prossimo, del 7,3% (percentuale che potrebbe salire in funzione dei dati sull’inflazione di novembre e dicembre). Anche se questo aumento non copre del tutto la perdita del potere d’acquisto, è comunque di gran lunga il più alto degli ultimi decenni. Inizialmente sembrava che a beneficiare di questo più 7,3% pieno fossero le pensioni sino a quattro volte il Trattamento Minimo (TM), pari a 525,38 euro lordi al mese, mentre quelle più consistenti sarebbero aumentate di una percentuale più limitata: le più alte sarebbero cresciute del 75% del 7,3, quindi del 5,475%.

La mossa della premier

Ma Giorgia Meloni ha voluto dare una impronta ancora più sociale alla rivalutazione pensionistica. In legge di bilancio si è passato così da tre fasce a sette, per dare un respiro maggiore ai più poveri. I percettori della minima vedranno sul cedolino del prossimo gennaio una rivalutazione del 120% del mitico 7,3% (quindi dell’8,76%) mentre chi percepisce fino a quattro volte il TM, avrà il 7,3% integro. I “guai” iniziano per chi gode di pensioni più alte. Nelle cinque fasce restanti, la quota sull’incremento si riduce drammaticamente, sino a crollare, per chi riceve oltre 10 volte la minima, al 35% del 7,3%. Cioè del 2,555%, un incremento ben lontano dal tasso di inflazione.

E il governo Draghi…

Da un lato questa scelta inattesa di Giorgia Meloni trova giustificazione nell’allarme povertà che a mio avviso rappresenta la più grave delle emergenze. Negli anni del Governo Draghi, secondo ISTAT la povertà assoluta ha coinvolto 1,9 milioni di famiglie. Dati sostanzialmente confermati dall’ultimo Rapporto Caritas, che parla di record di poverissimi, stimati in 5,6 milioni di abitanti. Nell’ultimo anno il numero di bisognosi che chiede aiuto all’Organismo pastorale della CEI è cresciuto di oltre il 7%. Considerando che molte delle persone in difficoltà sono anziane, la scelta di rinforzare le fasce pensionistiche più deboli appare in linea con i criteri di perequazione sociale.

Ma chi pensa al ceto medio?

Dall’altro lato, però, a farne le spese non sono i ricchi veri, bensì il ceto medio. Lasciamo stare lo scaglione più alto, quello superiore a 10 volte il trattamento minimo, che potrebbe comprendere le “pensioni d’oro” e concentriamoci sulla fascia da 8 a 10 volte la minima. Si tratta di pensioni che al netto sono inferiori a 3 mila € al mese e che vedono una rivalutazione pari solo al 40% del 7,3%, quindi inferiore al 3%. Ora chi riceve meno di 3 mila euro mensili, non è certo un Paperone. È pressapoco lo stesso discorso delle aliquote Irpef. Chi ha un imponibile superiore a 50 mila euro l’anno è considerato un ricco, cui va applicata la massima delle aliquote, il 43%. Peccato che tradotto in netto significa che chi porta a casa 2.700 euro mensili paga in proporzione quanto uno gnomo della finanza. La flat tax di fatto in Italia c’è già, a favore dei ricchi veri, che pagano (ovviamente in percentuale), la stessa aliquota del ceto medio.

Milo Goj

Milo Goj

Milo Goj, attuale direttore responsabile de L’Incontro, ha diretto nella sua carriera altri giornali prestigiosi, come Espansione, Harvard Business Review (versione italiana), Sport Economy, Il Valore,...

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