Uno spazio circolare dall’arredamento minimale, immerso in un tramonto perenne su cui si stagliano grandi arcate di pietra. Qualche divano, palme e un grande schermo curvo che torreggia al centro dell’ambiente. Fascino misto a un’inquietudine di fondo, una sensazione di cortocircuito tra realtà e finizione. Sarà forse per quel cielo fisso, o per quell’atmosfera artificiale immersa in una costante golden hour.

Non è un romanzo cyberpunk, né un videogioco. È il Metaverso, la realtà virtuale inaugurata da Mark Zuckerberg nel corso del 2021. Entrare nel Metaverso è come passeggiare nel futuro seduti nel presente. È la possibilità di essere ubiqui, di spostare il confine della realtà di qualche metro.

Il Metaverso funzionerà, ma sarà davvero il paradiso promesso dai suoi creatori? Le questioni critiche sollevate da questa nuova tecnologia sono molteplici e i tentativi di analisi, per adesso, sono più che altro un esercizio di speculazione realistica. Assomigliano insomma a una distopia, ma se il ruolo della distopia è a tratti profetico, a tratti illuminante rispetto al presente, parlare di Metaverso oggi significa interrogarsi criticamente sulla realtà che abbiamo intorno.

Reale o virtuale?

Al Metaverso si accede grazie a visori 3D, incarnandosi nel proprio avatar personalizzabile. A un primo sguardo le potenzialità di questa nuova tecnologia paiono infinite. È possibile interagire con altri utenti e giocare ai videogiochi, ma anche acquistare terreni, creare e acquisire oggetti, così come partecipare a concerti e conferenze, viaggiare, lavorare. Tutto sembrerà, sarà reale, perché la realtà virtuale inganna i “neuroni gps”, ovvero quelle cellule che ci rendono consci di essere in un determinato spazio, che sia un luogo di lavoro o la nostra camera da letto. «Puoi pensare al Metaverso come a un internet incarnato, in cui invece di visualizzare solo i contenuti ci sarai dentro». Afferma Zuckerberg in un’intervista per The Verge. «Sarai in grado di sederti come un ologramma sul mio divano e ci sembrerà di essere nello stesso posto, anche se siamo a centinaia di miglia di distanza
Sembra impossibile? Eppure per molte persone è già realtà. Sono 350 milioni gli utenti che “abitano” il Metaverso, 43 i mondi digitali attualmente esistenti. Altrettanto reali sono gli investimenti miliardari in questo cyberspazio, stimati a 800 miliardi di dollari entro il 2024. Una vera e propria corsa all’oro che coinvolge non solo le Big Tech, ma anche brand come Gucci.

Le origini

Se tutto questo suona come un romanzo cyberpunk è perché è così. Il termine Metaverso è stato coniato da Neal Stephenson nel romanzo distopico Snow Crash. L’autore descrive un mondo di enormi disuguaglianze, in cui i franchising delle grandi imprese hanno sostituito la politica. Le persone si rifugiano nel Metaverso, un luogo virtuale tetro e regolato da demoni in cui il prestigio e il conseguente acceso a beni e servizi dipende da quanto è curato il proprio avatar, quindi di fatto dal potere economico. Dalla padella alla brace insomma. Se in virtù di questo scenario la scelta del nome appare quantomeno curiosa, in realtà assomiglia a una velata dichiarazione di intenti, secondo quel principio per cui il migliore nascondiglio possibile è in piena vista.

La tecnologia intende sostituirsi a Dio

Guardandosi intorno, immaginare una realtà governata dalle grandi aziende non appare poi così fantascientifico. Né tantomeno è distopico affermare che il mondo è costruito sulle disuguaglianze. Basti pensare a quanto potere è concentrato nelle mani di pochissimi, tra cui spicca la triade Bezos, Zuckerberg e Musk. Mentre il fondatore di Amazon ha il potere di far smantellare un ponte storico per far passare il suo yacht, Zuckerberg è il re delle nuove piazze pubbliche, i social network, in competizione con Musk che, oltre a voler colonizzare lo spazio, è appena diventato il proprietario di Twitter.

Questa Santa Trinità secolarizzata vive di una retorica salvifica tradotta nel determinismo tecnologico e nel libero mercato. In altre parole, propina una visione della tecnologia come soluzione a tutti i mali, del progresso a tutti i costi, ma sempre a patto che crei profitto. Se Dio è stato detronizzato dalla fede nella ragione e nella scienza dell’Illuminismo, oggi è la tecnologia ad avere tutte le risposte.
Questa nuova ideologia ha insito un immobilismo spaventoso, una visione del futuro deprimente. Poco importa che la Terra stia bruciando, tanto andremo su Marte o nel Metaverso. O meglio, andranno. C’è infatti un leitmotiv di fondo. Il digitale riflette il reale, con tutte le sue disuguaglianze, esacerbate e rese evidenti. Squarciato il velo di maya dell’utopia di un mondo libero perché connesso, rimangono i lati oscuri di un progresso che ha perso la capacità di guardarsi non solo indietro, ma anche intorno. Quello prospettato da Bezos, Zuckerberg o Musk non è un mondo a accesso libero, ma è costruito da e per chi è privilegiato.

Liberi o liberi di consumare?

Partiamo da un presupposto: la tecnologia non è neutra. Né è buona o cattiva per natura. È uno strumento e in quanto tale, se da un lato può essere riappropriata, dall’altro riflette il sistema dominante che la crea. Ogni nuova tecnologia si porta dietro una promessa di libertà e democrazia. Che questa promessa venga poi effettivamente mantenuta è un altro paio di maniche.
Nel mondo prospettato dai re della Silicon Valley tutto ciò che è umano viene ridotto a un calcolo, a un dato, a un algoritmo personalizzato. Ogni sfaccettatura dell’essere può essere decontestualizzata, etichettata e incasellata per costruire dei modelli di consumo e quindi di profitto. Da ogni gusto un modello di marketing, a ogni identità la propria vetrina. Così ogni rivendicazione politica e identitaria diventa una pubblicità, un gadget sponsorizzato su Google, su Instagram, su Amazon. La massiccia raccolta di dati personali diventa uno strumento per orientare gusti e desideri, ma anche campagne elettorali – basti pensare allo scandalo Cambridge Analytica.
Purtroppo gli ossi di seppia lasciati dal sogno di libertà di Internet e dei social network sono anche questo: una vetrina commerciale monopolistica più che uno spazio democratico condiviso. In un mondo i cui demiurghi sono imprenditori ultramiliardari, siamo davvero liberi o siamo liberi di consumare?

Il futuro è già qui

Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”. Questa frase deve la propria paternità a William Gibson, esponente di spicco della fantascienza cyberpunk. E il punto è proprio questo: non abbiamo bisogno del Metaverso per immaginare una realtà che ha fatto del profitto a tutti i costi il proprio modello etico ed economico, ignorando le normative e i danni sociali provocati – vedasi il caso Facebook Papers. Quella prodotta dalla “siliconizzazione del mondo” è una società più connessa, ma non più empatica; più ricca, ma non per tutti; apparentemente più libera, ma non più equa.
Il Metaverso non farà eccezione. Sempre a patto che diventi una tecnologia più accessibile (attualmente il visore più scarso costa 349 dollari), genererà non un libero mondo, ma un libero mercato governato dalle Big Tech. Quale etica, quali leggi regoleranno questo nuovo universo? A quale libertà risponderà, quella di tutti o quella di profitto dell’1% più ricco? Come possiamo pensare che il Metaverso sarà un posto felice se rifletterà un mondo iniquo, disuguale e ingiusto?

 

Una corsa persa in partenza?

Questa grande rivoluzione virtuale è potenzialmente meravigliosa e catastrofica allo stesso tempo: il punto è che, come ogni nuova tecnologia, non è deterministica. Non è una corsa persa in partenza, anche se ci fa sentire impotenti. Facciamo lo sforzo utopico di immaginare un mondo in cui la tecnologia è al servizio del bene pubblico e non degli interessi commerciali di pochi. Pretendiamo che la realtà non si evolva in uno scenario distopico che costringe i protagonisti a rifugiarsi in un cyber-spazio o su altri pianeti. “Non fidarsi di quei paradisi che non sono una festa anche per la terra” avvisano i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Ovvero, usiamo la possibilità di creare nuovi mondi per rivoluzionare l’esistente, per rendere più libere le vite di chi incrociamo, più equa la terra che attraversiamo. Serviamoci dei toni catastrofisti e delle distopie quotidiane per acquisire strumenti di consapevolezza, per esercitare il pensiero critico, dove risiede la vera libertà.

 

Virginia Tallone

Cuneese di origine e bolognese d'adozione, è laureata in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali. Iniziando come autodidatta nel mondo dell'informazione indipendente dal basso, frequenta la magistrale...

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