Il piano nazionale di ripresa e resilienza, Next Generation Italia, ha prodotto i suoi primi effetti. 

La prima bozza, che ha incassato valutazioni comprese tra insufficiente e indecente, ha portato il Governo sul limite della crisi. 

La seconda, un po’ migliore secondo molte valutazioni, lo ha fatto quasi cadere. 

In quelle 178 pagine ci sono le ragioni che hanno portato a un Governo precario e con aspettative di vita incerte, un Governo che si trova tra le mani una proposta che, se spedita in questa forma, Bruxelles rimanderebbe indietro senza bisogno di esami particolarmente sofisticati. Chi conosce un po’ la programmazione sa che un documento nato male può persino peggiorare a forza di correzioni. 

I due piani Recovery sono l’evoluzione l’uno dell’altro. 

Il secondo è disomogeneo come il suo genitore nella sua impostazione e stesura, frutto del collage di molte mani, ma è un po’ più preciso e chiaro in alcune parti, positivo in alcune proposte. 

Come il primo, la sua narrazione bizantina appare studiata per coprire l’assenza di una prospettiva strategica e alcune gravi lacune. I tre assi strategici, digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale, si articolano in 6 missioni, che generano 16 componenti, per 47 linee di intervento e un numero notevole di progetti – troppi. 

Poi ci sono le riforme, tutte: giustizia, turismo, rifiuti e ambiente, acque, infrastrutture, porti e dogane, istruzione, ricerca e sviluppo, lavoro, terzo settore. 

La sua narrazione bizantina appare studiata per coprire l’assenza di una prospettiva strategica e alcune gravi lacune

Contenitore opaco e affidato a mani incerte

Abbiamo grandi ambizioni riposte in un contenitore opaco e affidato a mani incerte. Se ci si addentra nel documento, si va dal dettaglio estremo (‘vi informiamo che compreremo 10 aliscafi e 12 traghetti, 5139 bus, 80 treni a nuove propulsioni elettriche o a idrogeno’) alla genericità mediocre che sorprende nel leggere la parte dedicata a Turismo e Cultura, a inserti a sorpresa (un intervento da ben 750 milioni destinato alla tecnologia dei microprocessori), alla delusione e sconcerto che ci riserva la parte di politica industriale e internazionalizzazione della seconda forza manifatturiera europea, fortemente export lead, che occupa 16 righe dell’attenzione del Governo per un investimento di 2 miliardi fino al 2026 (0,64% del totale).

Pericoli o quasi certezze di spesa improduttiva si intravedono in idee come la realizzazione di nuove infrastrutture per il trasferimento tecnologico nel Mezzogiorno, o la creazione di altri 20 campioni territoriali di R&D che si aggiungerebbero ai 7 centri di dominio, uno dei quali, quello dedicato all’intelligenza artificiale, come sappiamo, nascerà a Torino.

Qua e là emergono vecchie tentazioni, il potenziamento dei centri per l’impiego che miliardo più miliardo meno suona ormai come il salvataggio dell’Alitalia, o idee balzane e costose come il sinistro Portale del reclutamento, dove i cittadini troveranno un giorno i concorsi della PA. Sono i numeri che cambiano e non di poco, perché i 209,9 miliardi provenienti dall’Europa, salgono a 222,9 miliardi di euro con l’aggiunta di 13 miliardi di fondi della coesione per il Mezzogiorno e poi levitano a 310,60 miliardi ascrivendo al piano 79,81 miliardi della programmazione di bilancio 2021-2026.

Circa 66 miliardi sono destinati a progetti già in essere, 145 a nuovi interventi. 

Tutti i contributi sono destinati a nuovi progetti, 69 miliardi, mentre dei 140 miliardi e rotti di prestiti, ben 87,5 vanno a sostituire debito pubblico vecchio, con un debito nuovo a condizioni migliori e a lungo termine. La valutazione degli impatti è tra le parti più deboli e mediocri del documento.

Il Governo si attende una crescita del 3% sul PIL nel 2026 per effetto di questa massa di investimenti, ma non c’è un cronoprogramma o una anche solo generica indicazione sui tempi di realizzazione e, come è noto, per ora non ci è dato sapere quale sia l’orientamento del Governo circa la governance di un simile programma. 

Altri numeri, che il governo ovviamente non cita, ci aiutano a capire meglio la pericolosità di questa sfida. 

Noi abbiamo un saldo storico negativo tra contribuzione al bilancio europeo e incassi da UE di circa 5 miliardi all’anno. 

Il Governo si attende una crescita del 3% sul PIL nel 2026 per effetto di questa massa di investimenti, ma non c’è un cronoprogramma o una anche solo generica indicazione sui tempi di realizzazione

La programmazione del bilancio UE è su base settennale. Il ciclo 2021-2027 vale 1074 miliardi; il programma Next Generation EU, 750 miliardi. In totale sono 1824 miliardi in tutto. Nel primo canale finanziario, secondo l’informativa del Presidente del Consiglio alla Camera dei deputati del 22 luglio 2020, il saldo italiano sarebbe negativo: la stima, ottimistica, è di circa 3 miliardi all’anno; nel settennio 2021-2027, più o meno 20 miliardi, 35 se non facciamo meglio che in passato. 

Per Next Generation EU si prevedono 127,6 miliardi di euro in prestiti e 65,5 miliardi in contributi. Avremo poi 13,5 miliardi per REACT-EU (l’attuale Politica di Coesione); 0,5 miliardi da Horizon Europe, il programma per la ricerca, 0,8 miliardi dalla Politica agricola, 0,5 miliardi dal Fondo JTF; 0,2 miliardi dalla protezione civile dell’Unione. Totale: 81 miliardi a fondo perduto. L’Italia dovrà versare al bilancio UE come suo contributo a Next Generation EU 96,3 miliardi.

Il saldo è positivo solo se si conteggiano i prestiti, ma negativo per la parte di contributi di circa 15 miliardi. Totale: almeno 35 miliardi di saldo negativo, se spenderemo tutto. Infatti, non possiamo ignorare le nostre storiche scarse capacità di spesa. 

Una cifra pari a 48 anni di fondi strutturali

Le penose performance parlamentari ignorano con colpa i rischi di un piano che fissa una cifra da spendere pari a quasi sette periodi di programmazione dei fondi strutturali, cioè circa 48 anni. Nel periodo 2014-2020 l’Italia ha ricevuto circa 45 miliardi di euro secondo il servizio studi della Camera dei Deputati. Ne abbiamo spesi solo una parte. 

Secondo la Corte dei Conti europea aggiornato a settembre, l’Italia è penultima per capacità di assorbimento dei fondi 2014-2020 (fa peggio solo la Croazia), con circa il 38 per cento delle risorse spese. Francia e Germania sono a metà classifica, rispettivamente col 53 e il 49 per cento, lontana la Finlandia, col 73 per cento. In tempi di pandemia la Commissione Europea ci ha concesso di tutto, anche di riutilizzare i fondi strutturali non spesi, 10,4 miliardi per la salute e per contenere le conseguenze della pandemia, ma comunque sia, secondo le stime più aggiornate, l’Italia arriverà a spendere soltanto il 40% del totale. Le cause sono una scarsa qualità amministrativa di una struttura della PA vecchia (51 anni in media) e inadeguata (40% con laurea) e da una capacità progettuale del Paese poco innovativa. Piovono tanti soldi su una leadership politica molto debole e con una crisi da debito incombente.

Non sarà il danaro a costruire un disegno organico di politica economica, in assenza del quale gli spiritelli della spesa incontrollata, quella che non genera crescita ma clientelismo, allestiranno un banchetto epocale. C’è da pensare forse che qualcuno si sia sfilato prima che il convoglio vada a sbattere.

Andrea Bairati

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