Si respira in giro quasi un’aria di resa.

Di scetticismo.

Di comune senso di impossibilità di cambiare le cose.

Le “Over The Top” (“OTT”), Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft hanno ormai acquisito una posizione dominante nei mercati che induce al pessimismo sulla possibilità di arginarne lo strapotere.

L’attuale boom della Borsa americana è dovuto per il 90% all’incremento dei valori dei titoli azionari proprio delle OTT.

Hanno ormai vinto la loro battaglia, diventando, in molti casi, più potenti di alcuni stati nazionali?

Apparentemente sì.

Anche l’ultimo episodio relativo all’oscuramento dell’account nientemeno che del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, deciso in assoluta autonomia da Twitter e poi dagli altri grandi social network americani, dimostra come, di fatto, queste società svolgano ormai anche un ruolo di supplenza rispetto alla politica.

Decidono loro (in base a razionali opportunistici legati al business e alle relazioni con i “potenti”) anche i contenuti che i miliardi di cittadini nel mondo devono e possono leggere o devono e possono “fare a meno di leggere”!

Ma questo quadro deprimente e assolutamente pericoloso dal punto di vista della nostra sicurezza e della nostra indipendenza, è davvero così immodificabile?

Gli stati nazionali hanno ormai perso la loro battaglia contro le OTT?

Io non lo penso e credo che ci sarebbero tutti gli strumenti per, da un lato, adottare provvedimenti ad esempio in base alla legislazione sull’antitrust mirati a limitare il loro abuso di posizione dominante, e dall’altro, ricentralizzando nei legislatori nazionali, o comunitari o federali, il potere di decidere le regole del gioco con le conseguenti sanzioni per chi non le rispetta.

Come vedremo tra poco, questo è il punto centrale per iniziare una seria e costruttiva policy mirata a limitare lo strapotere mondiale delle OTT.

Certo, bisogna che la politica torni a fare il suo mestiere e, come accaduto negli ultimi anni, non rimanga prona o passiva di fronte al consolidamento di uno strapotere di un oligopolio di società private che fanno e disfano business a loro piacimento, aggirando la legge o ottimizzandone, per esempio dal punto di vista fiscale, lacune e difetti.

Bisogna anche svuotare di contenuto un alibi che si sente troppo spesso girare nelle aule parlamentari sia di Strasburgo sia nei parlamenti nazionali: “La legge non è in grado di rincorrere la tecnologia!”.

Questa è una sciocchezza!

Può essere in parte vero, ma come ha provocatoriamente dichiarato il prof. Luciano Floridi, dell’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, anche no!  “ Se uno stato decidesse di emanare una legge che vieti la pubblicità sui social network, il problema del loro strapotere si esaurirebbe nello spazio di qualche ora. Dovrebbero chiudere tutti immediatamente. Certo, è una battuta, ma non vorrei che tendessimo tutti ad esagerare il potere di Facebook e degli altri colossi del digitale. Questi big player sono  molto potenti ma anche enormemente fragili. La fragilità sta nel fatto che vivono di un business che è altamente riproducibile. Non hanno trovato una formula magica che li rende primi e non raggiungibili”.

Dobbiamo fare alcune riflessioni sul modello di business delle OTT.

Il  modello attuale è costruito per essere sostanzialmente gratuito e farci pagare, a noi utenti, il prezzo con il sostanziale trasferimento gratuito dei nostri dati.

Il modello si basa infatti sulla estrazione dei nostri dati privati e la loro valorizzazione a fini commerciali.

Questa è la loro ragion d’essere dei social network che gli è stata permessa fino ad oggi da legislazioni accondiscendenti o non rigorose nell’accertamento delle violazioni di legge. Prima fra tutte quella sulla privacy!

Ma questo è l’unico business model possibile?

Non necessariamente – ha scritto Floridi – pensiamo per esempio ad un business misto come quello adottato da Netflix che ti fa pagare un abbonamento e in più raccoglie i tuoi dati. Non ti vende pubblicità, almeno in modo palese. I tuoi dati servono a migliorare il servizio che ti è offerto. Il mantra è sempre lo stesso: più ti conosco, più so le tue abitudini, più ti offrirò proprio quello che tu desideri”.

Il modello Netflix non è probabilmente quello ideale, ma è già un modello diverso da quello di Facebook dove ciascuno di noi non paga nulla ma, senza rendersene conto, ciascuno di noi viene espropriato della propria identità, anche quella più riservata.

Da febbraio, WhatsApp ha annunciato la condivisione con Facebook (la società proprietaria di WhatsApp!) di tutti i dati e di tutte le informazioni che viaggiano su WhatsApp.

Da facoltativa la condivisione diventerà obbligatoria per l’utente, pena l’espulsione da WhatsApp.

Ci troviamo dunque di fronte ad una valanga che man mano che scende a valle diventa di dimensioni più grandi: una deriva per cui i nostri dati personali saranno sempre più utilizzati liberamente dalle OTT per creare valore nei loro conti economici già straricchi.

E’ un processo inarrestabile?

Personalmente non credo e lo stesso Floridi precisa: “Ci potrebbero essere modelli di business e anche legislativi, tutti da studiare, che potrebbero prendere direzioni diverse, più a tutela della nostra privacy e meno a favore della accumulazione di ricchezza dei social network. Tutto ciò è certamente fattibile, ma ci vuole una forte volontà politica per iniziare una nuova strategia legislativa”.

Qualche segnale positivo ci arriva dai nuovi testi dei Digital Services Act e Digital Market Act in cui, all’art. 20, si precisa, ad esempio “Le piattaforme digitali devono sospendere per un periodo ragionevole e dopo aver emesso un avvertimento preventivo, la fornitura dei propri servizi ai destinatari degli stessi servizi che producono frequentemente contenuti manifestatamente illegali”.

Il legislatore europeo si è ripreso il suo ruolo di indirizzo delle politiche digitali prevedendo una specifica responsabilità dei social network per i contenuti che vengono diffusi in Rete.

Dunque si può invertire la rotta, non fidandoci soltanto dell’autodisciplina delle Big Tech.

Sentiamo ancora su questo punto l’opinione di Floridi: “Ci sono due forze che non funzionano e due che potrebbero funzionare. Le due forze che non funzionano sono l’autoregolamentazione e la competizione… L’autoregolamentazione non funziona perché, come si è visto nei casi di Google e Facebook, è “troppo poco e troppo tardi”. Anche la competizione è negativa perché non è mirata a migliorare il servizio che ci viene proposto ma semplicemente a farsi la guerra con i competitors. Per rimettere a posto una concorrenza oggi spietata, bisognerebbe riformare la normativa antitrust. Se ci fosse una vera riforma, allora vedremmo che Facebook e WhatsApp non potrebbero stare insieme, essere detenute dagli stessi azionisti”.

Quali sono le due forze che potrebbero funzionare?

Sono quelle della regolamentazione dal punto di vista legislativo in termini di standard e la cosiddetta public opinion”.

L’Europa sta lavorando positivamente sui regolamenti proprio sulla falsa riga del DSA e del DMA, che abbiamo appena citato.

L’opinione pubblica, la seconda forza sulla quale impostare una nuova policy mirata all’arginamento dello strapotere delle OTT, sta dando segnali di un certo risveglio. E’ meno supina di una volta. Tali segnali arrivano proprio dalle reazioni degli utenti di WhatsApp che si sono ribellati all’annuncio sulla obbligatorietà della condivisione dei loro dati personali con Facebook.

Il punto centrale di questi ragionamenti torna a essere il ruolo della politica, a livello locale ed internazionale.

Deve direzionare, non rincorrere, lo sviluppo della tecnologia.

Non ti deve dire quanto veloce puoi andare, ma dove devi andare… che è una cosa ben diversa.

Il legislatore ha in mano tutti gli strumenti per fare ordine nel FarWest della Rete, senza alibi.

L’alternativa, come sostiene Floridi, non è tra “Si può fare o no”, ma “come si può fare bene”.

La strada giusta è rivisitare i business model delle OTT che oggi sono puramente speculativi ed esclusivamente mirati ad un vantaggio riservato soltanto agli azionisti dei social network.

Bisogna cambiarli con una nuova legislazione.

Nel precedente contributo su questo tema e in particolare sul rapporto tra libertà di espressione e la censura operata dai social network nei confronti di Trump, avevo già citato l’importanza di una collaborazione, auspicabilmente volontaria ma se no, in caso contrario, obbligatoria, tra i proprietari delle piattaforme e l’autorità pubblica designata ad hoc, per valorizzare l’esperienza degli algoritmi basati sulla predittività dei nostri comportamenti.

In tal modo sarebbe molto più semplice monitorizzare e inibire sul nascere tutti i contenuti che passano nella Rete mirati a istigare, per esempio, violenza e odio nelle comunità dei cittadini.

Viviamo, in tutto il mondo, un momento molto complesso aggravato anche dall’emergenza pandemica ed economica: chissà che, ancora una volta, l’umanità non riesca, in un momento buio, a fare uno scarto positivo, ribilanciando i ruoli e le modalità operative tra i grandi giocatori professionali della Rete e la centralità del ruolo dei legislatori pubblici, nazionali e internazionali.

Per fare ciò ci vorrebbe però una leadership mondiale visionaria, professionale e trasparente.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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