Nel mondo è scomparsa la parola che più ci aiuterebbe a vivere, potrei dire il sostantivo di cui più avremmo bisogno. La soluzione a tanti mali; perdono. Sto esagerando? Non credo. L’arroganza, e quindi la debolezza, ha preso il sopravvento su tutti noi; chiedere perdono per un torto fatto è fuori discussione, vorrebbe dire mostrarsi deboli e perdenti, cosa che in queste società non è ammissibile. Si rischiererebbe di diventare zimbelli alla mercé di tutti.

Invece penso sia l’esatto contrario. Perdonare non è sinonimo di debolezza, bensì di forza e di umiltà insieme. Perdonare è un atto liberatorio che alleggerisce la nostra coscienza, ci consente di rimetterci in marcia con una nuova luce, addirittura, il perdono, lo considero un atto eroico. Me ne frego che per moltissimi non lo sia (il mondo è stracolmo di deboli truccati da forti). Proviamo a immaginare per esempio un politico che dopo essere stato eletto chiede perdono per non aver mantenuto le promesse fatte (stiamo pensando alla Meloni ma la lista è infinita).

Cari italiani, chiedo perdono per non essere riuscito/a a mantenere gli impegni promessi, sento di avervi tradito… Una simile azione, sono sicuro, lascerebbe tutti sconcertati e il politico non solo non apparirebbe perdente, ma si guadagnerebbe una nuova stima. Lo so, fantascienza. Oppure immaginiamo un Capo di Stato che chiede perdono a uno stato confinante per tutte le mostruose angherie che per anni a questo ha imposto.

Il perdono accompagnato dalla promessa di rimediare a tutta l’incontenibile rabbia che il proprio comportamento ha causato. Pura fantascienza! Sapete qual è la parola di cui più hanno terrore, come l’acqua santa per il diavolo, i costruttori d’armi? La parolina Perdono! Perdonare vuol dire fine del business, finirla col sangue di chiunque sia, purché frutti moneta. È talmente vasto questo tema (e chiedo scusa per essermi addentrato) che, per evitare un bagno di retorica, ho pensato sia meglio lasciar parlare un mio piccolo racconto. Dal nostro piccolo dobbiamo ricominciare. Umilmente.

 

Fotografie, 1998

Dopo l’iniziale momento in cui, stupefatto, si era irrigidito fissando la prima fotografia, con rapidi scatti nervosi passò a quelle successive buttandole man mano sul letto. Erano sei vecchie foto che ritraevano due o tre donne abbandonate mollemente su un divano. Forse non avevano vent’anni, bellissime, ridevano ed erano coperte soltanto da veli trasparenti che lasciavano intravedere i loro giovani corpi nudi. Quindi Antonio ad una ad una riprese in mano quelle immagini datate, color seppia, osservandole questa volta minuziosamente, quasi distillandone ogni centimetro quadrato. Il freddo che sentì lungo la schiena era un segnale che non lasciava dubbi; una di quelle ragazze ritratte era la nonna, e l’ambiente in cui si trovavano era un bordello.

Il divano, le pareti, il tappeto, tutto era carico di decorazioni eccessive che volevano rendere, senza equivoci, la lussuria di quella camera. Antonio cercava di ritrovare un respiro regolare, sperando di avere affrettatamente tirato conclusioni sbagliate e, sperando, che quel neo sopra il labbro superiore di una delle ragazze, quello stesso neo che ha anche la nonna, così nero e ben dipinto, fosse solo una pura coincidenza. Ma anche il sorriso, aperto e disincantato, era come quello della nonna. Proprio quel sorriso che era ciò che più amava di lei. Antonio buttò nuovamente le foto sul letto. Si drizzò con un moto d’ira, sperando che l’urlo sofferente compresso tutto dentro potesse, in piedi, sfogarsi liberamente. Dopo aver fatto alcuni passi su sé stesso, invece, l’urlo gli si annodò   in gola, bloccandolo a fissare come un ebete le pareti luminose della stanza che aveva appena imbiancato. Infatti, durante quella settimana in cui la nonna si era recata ad Alghero per far visita a una cugina, Antonio, d’accordo con sua madre, aveva deciso di farle quel regalo.

Adesso la vecchia camera con tutto quel candido biancore sembrava la stanza di una adolescente o, comunque, di una donna dolce, che sa dare amore a tutte le cose, che sa essere comprensiva e confidente, proprio come fino a pochi minuti prima aveva sempre pensato fosse la sua amatissima nonna. Solo fino a pochi istanti prima, perché adesso, la nonna, non era nient’altro che una puttana, una che aveva cancellato con un mazzo di fotografie tutto quel rapporto così profondo e sincero che in diciotto anni era maturato tra loro due. Era riuscita a nascondere a lui e sicuramente a tutta la famiglia quella doppia vita. “Ma perché si ridusse così? – pensava – ci fu la guerra, e allora? Mica tutte le donne divennero puttane, perché proprio mia nonna? – rifletteva sempre più angosciato – ecco cosa andò a fare a Roma, a battere in un casino. Erano tutte balle le storie che per vivere fu costretta, giovanissima, a partire da Cagliari per lavorare e mandare i soldi a casa… come faccio adesso! – gridava dentro di sé – come potrò più credere a ciò che mi dice, e come potrò più confidarmi con lei?… mia nonna, una puttana!”. E mentre quest’insulto gli vibrava in testa, ne sentiva tutta la stonatura.

“Ecco perché – ancora rimuginava – sa tante cose, sa darmi i consigli giusti, – fidati – mi ha sempre detto – io le donne le conosco bene, e anche gli uomini! Con questa ragazza fai così, con quell’ altra è meglio che ti mostri timido – mi diceva – è un tipo alla quale piace tanto il maschietto riservato – Ecco perché non sbagliava mai. E io correvo sempre da lei appena avevo un minimo dubbio. Ero orgoglioso di avere una nonna con la quale potevo parlare liberamente perfino di sesso, io che sono così imbranato e lei così aperta… Con una puttana ho diviso la mia vita!”.

Ormai Antonio quasi delirava. Aveva fatto le sue considerazioni restando fermo in mezzo alla stanza a fissare un punto qualsiasi della parete bianca. D’un tratto, come destandosi, si avvicinò al letto lasciandosi cadere sopra a peso morto, facendo agitare, come spaventate, le foto sparse sulla coperta. Avrebbe dato qualsiasi cosa in quel momento pur di distrarsi. Ma ormai, l’unica immagine che gli si era incisa nella mente, era quella ragazza-nonna che, sdraiata sul letto, ride, mentre un giovane o un vecchio la possiede senza rispetto e, ancora, via uno e avanti un altro, ad ansimare e a sudare sopra quella ragazza a gambe aperte che ride, che ride… Non si dava pace Antonio.

“La notte perdona il tramonto”, 2019

 

Quanto non avrebbe voluto curiosare nel comò della nonna! Ma l’aveva fatto semplicemente per sentire il profumo di pulito che avevano le lenzuola ben piegate. Per guardare la biancheria che sapeva di tenero, di ordinato. Poi, quel pacchettino avvolto in un’ingiallita pagina dell’”Unione sarda”. Soprattutto era stato il fiocco rosso che lo legava a calamitare la sua attenzione. Sembrava fatto apposta per destare curiosità. Sarebbe bastato non sollevare la camicia da notte così ben riposta in quell’ angolo del cassetto. “Basta! Cristo Santo!” gridò questa volta a voce alta. Sentì violento l’impulso di scappare via da quella stanza, dalla casa… di scendere in strada, di confondersi in mezzo alla gente. Prese le foto. Rifece il pacchetto e lo rimise nell’angolo del cassetto. Uscendo dalla camera si fermò un attimo a guardare le gocce di bianco cadute sull’armadio e sul pavimento. E mentre pensava che non avrebbe avuto voglia di pulire e rifinire dappertutto, dalla finestra spalancata sentì giù in strada la voce della nonna.

L’anziana donna era scesa dalla macchina. Parlava con gli amici che l’avevano accompagnata. Antonio si accostò alla finestra senza farsi notare; vide la nonna che, magra, col passo divenuto malfermo e il suo elegante vestito a fiori, attraversava il marciapiede seguita da un signore e da una signora. Parlavano a voce alta, ridevano, erano felici. Si udì il citofono e subito la voce della madre: “Antonio! È arrivata la nonna! Vai giù ad aiutarla, ha le valige!”. Antonio uscì veloce dalla stanza. Quindi fece di corsa i due piani e, incontrata la nonna nell’ingresso, la salutò distrattamente: “Ciao” disse appena. L’anziana donna restò con le braccia tese nel vuoto aspettando il bacio e l’abbraccio dell’amato nipote che, invece, si affrettò fuori in strada. Lo stupore della nonna fu tale che restò imbambolata con ancora le braccia aperte nel vuoto, come la statua di un santo che predica. “Mah, i giovani d’oggi… bisogna capirli” disse il signore che l’accompagnava. La nonna abbassò le braccia e, voltandosi verso l’uomo, sorrise timidamente: “Certo…” asserì.

Ciò che era successo era però troppo strano. Per molto, molto meno riceveva baci e abbracci da suo nipote. Ancor più adesso che si era assentata per una settimana. Come minimo si sarebbe aspettata un’ora di coccole, quelle che Antonio donava sempre a lei, quasi mai alla madre. A cena Antonio non si vide. La nonna continuò a far domande a sua figlia che le rispondeva: “Stai tranquilla, arriverà da un momento all’altro”. Arrivò invece una telefonata; Antonio restava in pizzeria e dopo sarebbe andato al cinema con gli amici. “Ma come?” disse la nonna, “proprio oggi… e poi, non mi ha quasi salutata…”. “Su mangia” ribatté la figlia, “sei eccessivamente apprensiva… non lo sono neanche io cosi… e comunque è un ragazzo, sta con gli amici no?”. Alle undici le due donne andarono a dormire. Dopo un’ora la nonna tornò in cucina. Si riempì un bicchiere di vino rosso, anche se non era solita bere fuori dei pasti e, appoggiate le braccia sul tavolo, aspettò il nipote. Quando sentì la chiave nella serratura erano passate le due e si era appisolata.

Si raddrizzò sulla sedia scolando tutto d’un fiato il bicchiere pieno, mentre si sentivano i passi del ragazzo che attraversava il corridoio senza affacciarsi in cucina, dove peraltro la luce era accesa. “Antonio” chiamò la nonna a voce bassa, tremula. I passi del ragazzo si bloccarono e nella casa si udì solo il corto rimbombo dell’ultimo passo. Quindi Antonio comparve sulla porta: “Sono stanco – disse – vado a dormire… perché non vai a dormire anche tu?”. “Avrei potuto bruciarle quelle fotografie… ma non me la sono sentita”. Fece la nonna, curvando un po’ la schiena. Antonio si voltò bruscamente di spalle. “Se mi vuoi giudicare, fallo guardandomi negli occhi…” Antonio non rispose. “Su, avanti, ora che sai tutto, sono qui per sentirmi dire in faccia quello che pensi… coraggio”.

Antonio non aveva mai sentito la nonna parlare così seriamente. Le sue parole erano sempre allegre, leggere, e adesso, anche se rotte dall’emozione, pesavano più del piombo. Antonio lasciò la maniglia della porta e andò a sedersi al tavolo. Decise di trovare il coraggio di guardarla negli occhi e si accorse che lei li aveva umidi, stanchi, e la mano, che teneva stesa sul tavolo, era magra e ricca di vene gonfie. Là vicino c’era il bicchiere. Lo sguardo di Antonio si fermò sul violetto che in fondo al vetro piano piano seccava. Allora, abbassò la testa fino a poggiare la guancia sul dorso di quella mano e, così, restò a sentirne il calore e la vita che ancora vi scorreva dentro.

Salvatore Garau

Salvatore Garau

Salvatore Garau è uno dei più noti contemporary artist italiani, più volte presente alla Biennale di Venezia. Oltre che come protagonista dell’arte visiva, è noto anche per essere stato il batterista...

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