La Resistenza è stata la più grande guerra popolare italiana, perché formata da volontari (come i seguaci di Garibaldi) e sostenuta dal consenso della gente. Fu una naturale reazione alla dittatura mussoliniana, crollata il 25 luglio 1943, e restaurata dai nazisti. Fu dunque una lotta per cacciare dall’Italia i tedeschi che la occupavano militarmente come padroni e non come alleati, applicando la repressione riservata ai Paesi nemici.

Non fu una guerra civile, come taluni storici ora sostengono. La Resistenza operò in Italia, come negli altri Paesi d’Europa, contro i tedeschi e contro i collaborazionisti che erano alla ricerca di un’impossibile legittimazione. I fascisti erano l’Anti-Italia, combattevano per la vittoria di Hitler. I partigiani invece combattevano per la libertà. Il senso di liberazione – che accomunava i giovani italiani di diversa estrazione sociale e ideologica – fu la scintilla della democrazia, che cambiò il modo di vivere della gente dopo tanti anni di dittatura.

I partigiani (inizialmente militari sbandati dell’esercito scioltosi l’8 settembre e volontari antifascisti) divennero poco alla volta una forza organizzata nel Corpo Volontari della Libertà (oltre 120 mila combattenti) che dalla metà del ’44 presidiò le valli alpine e le zone collinari dell’Italia occupata, nonostante feroci rastrellamenti da parte delle quattro Divisioni dell’esercito della RSI, delle Brigate Nere (20mila uomini), delle SS italiane (10mila uomini), dei criminali delle Legioni “Ettore Muti”, X Mas, ecc.

Chi ha vissuto l’esperienza del partigianato non dimenticherà mai l’orgoglio e la speranza, la solidarietà e la fede nel progresso, la gioia e le sofferenze di quella stagione giovanile. Oggi ha il dovere di illustrare la propria vicenda alle nuove generazioni, cui il dominio democristiano della scuola pubblica per decenni ha negato l’insegnamento della Resistenza e dei suoi valori etici.

Il messaggio universale della Resistenza infatti vale non solo per chi l’ha vissuta, ma per i nostri figli e i nostri nipoti. È una pagina della Storia, è il compimento del Risorgimento nazionale, è lo strumento di quei valori ideali che hanno ispirato la Repubblica e la Costituzione e restituito all’Italia la dignità di un Paese libero e civile, che ha ritrovato le proprie  radici.

Celebriamo la festa del XXV Aprile perché nel passato stanno le fondamenta del presente. Nell’Italia di oggi, pur rispettando il sacrificio dei caduti fascisti, non possiamo accettare alcuna equiparazione con la loro causa. Il morire per una causa sbagliata non la rende giusta. Pur accomunando i morti nella pietà, non dimentichiamo che la maggioranza degli italiani è stata vittima di una minoranza di prepotenti, violatrice dei diritti altrui,  responsabile della violenza, del razzismo, della guerra, della deportazione.

Antifascismo, invece, significa garanzia di libertà, giustizia sociale, tolleranza verso il diverso, difesa contro ogni totalitarismo. È dunque un punto di riferimento storico e politico, che non intende subire le provocazioni della destra mimetizzata in una cultura politica reazionaria, che ha improvvisamente scoperto e fatta propria la democrazia e vorrebbe parificare fascismo e antifascismo.

Invito tutti i lettori de L’INCONTRO  a festeggiare la storica ricorrenza del XXV Aprile.

Bruno Segre

Bruno Segre

Avvocato e giornalista. Fondatore nel 1949 de L'Incontro

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