E’ già difficile per un italiano capire la situazione geopolitica e, insieme etnica, al nostro confine orientale, figuriamoci per uno straniero, per di più americano. É una considerazione che ho fatto al termine della lettura di “Adriatico, Un incontro di civiltà” dell’americano Robert D.Kaplan, del quale già mi ero occupato per una pubblicazione dell’Associazione Italiana di Studi del Sud-Est Europeo (AISEE) in merito al suo libro “Lo spettro dei Balcani”, che grande influenza ha avuto sulle decisioni di Clinton di non intervenire militarmente durante il conflitto nella ex Jugoslavia.

Una disputa tra traduttori

Corrispondente per sette anni dalla Grecia per il giornale The Atlantic, si è occupato di affari esteri, per un certo tempo prevalentemente di Balcani, è più recentemente – tra il 2016 e il 2018 – è tornato sui questi sentieri, dando vita a questo libro edito da Marsilio che, al contrario di quello, presenta poche ma importanti pecche. A parte l’incongruità delle due traduttrici, Nausikaa Angelotti e Federica Merani, di non tradurre il toponimo croato di Rijeka nell’italiano Fiume, errore che farà anche lo stesso Kaplan, quando, citando Leo Valiani, scrive: “Era nato nel 1909 a Fiume, poi Rijeka”, mostrando così di ignorare anche lui che il nome di Rijeka non ha sostituito o è succeduto al nome italiano di Fiume ma ne è semplicemente la trasposizione in croato così come, ad esempio, Zagreb è in italiano Zagabria o Split Spalato o, per restare sulla costa adriatica orientale, Dubrovnik è Ragusa.

Le numerose katastrofí dell’Adriatico

Queste possono sembrare pedanti puntualizzazioni, in realtà sottolineano l’amara verità di quanto, dal secondo dopoguerra a oggi, la storia sia stata manipolata al punto di trapassare – celandolo – quanto accaduto sulle terre del confine orientale. Ovvero che, in seguito all’annessione dell’Istria e di Fiume e di Zara alla Jugoslavia e la contemporanea politica di terrore nei confronti della popolazione italiana autoctona, si è attuato, per dirla con le parole dello storico Raoul Pupo, il fenomeno storico di cui le foibe e l’esodo massiccio di 300.000 italiani sono espressione, ovvero della “catastrofe dell’italianità adriatica, cioè la sua scomparsa dai territori dell’Adriatico orientale, ad eccezione delle attuali province italiane di Trieste e Gorizia. Il termine non vi sembri retorico – continua Pupo – perché invece ha carattere tecnico, con un riferimento preciso alla Mikrasiatikí katastrofí, cioè alla catastrofe dei greci d’Anatolia agli inizi degli anni ’20 del ’900, con la quale le vicende adriatiche presentano una forte somiglianza, tant’è che gli storici italiani, come Ernesto Sestan, l’hanno subito colta fin dagli anni in cui la tragedia adriatica si è prodotta.”

L’esodo degli italiani ha lasciato un grande vuoto

Quella stessa Mikrasiatikí katastrofí, cioè il radicale cambiamento di popolazioni sulla
costa anatolica, della quale peraltro Kaplan parla nel suo libro, quando, nel suo viaggio lungo le terre dell’Adriatico, da Rimini a Ravenna e Venezia, sale a Trieste e poi giù, attraverso Capodistria, Pirano e Fiume, arriva a Ragusa, e quindi alla greca Corfù. Viceversa, della “catastrofe adriatica” non fa cenno. Se parla dell’esodo degli italiani, non si sofferma sulle cause né sul grave vuoto demografico riempito da popolazioni provenienti da altre parti della ex Jugoslavia. Se lo fa, riduce il tutto alla semplice annotazione che dalla prima alle seconda guerra mondiale l’Istria e Fiume sono state sotto amministrazione italiana. Ne fa, cioè, quasi una parentesi di presenza o addirittura di occupazione abusiva, mentre il discorso è molto più complesso.

Un’unica dimensione etnica, linguistica e culturale

Il fatto è che su quei territori, ancora in pieno impero austroungarico, la cultura, la lingua e la stessa identità italiane erano una componente fondamentale della regione adriatica, al punto da rappresentare, fin d’allora, la lingua franca tra le diverse popolazioni, italiane, slave, valacche, francesi, magiare, austriache, che arricchivano il tessuto umano, linguistico e culturale della costa orientale. Il risultato è che oggi, dopo 75 anni, abbiamo l’Adriatico orientale a un’unica dimensione etnica, linguistica e culturale con irrilevanti minoranze, in particolare quella italiana, destinata a scomparire. Per citare ancora lo storico Pupo. “L’italianità adriatica non aveva basi solamente etniche, cioè di continuità con il popolamento romanzo, in quanto era in buona parte frutto di processi di integrazione secolare di apporti diversi. Non a caso, un numero cospicuo di patrioti e martiri dell’irredentismo adriatico non aveva affatto un’origine etnica italiana. Si pensi al protomartire Guglielmo Oberdank, oppure a Scipio Slataper (che vuol dire penna d’oro), oppure ai Brunner, Stuparich, Xidias, Ghiglianovic, Krekich.”

Una visione poco veritiera

Purtroppo dal reportage di Kaplan, ricco peraltro, di letture e citazioni e incontri, a mio avviso tutto ciò non emerge e, temo, più per ignoranza che per trascuratezza o superficialità,. Dà per scontato, sia in termini geopolitici che storici, ma anche di costume, che da quelle parti – e parliamo di Capodistria, Pirano, Fiume – l’Italia sia stata, al contrario di una lingua e cultura millenaria come è stata, nulla più che una breve parentesi poco più che ventennale, sposando così una storiografia messa in circolo prima dai 45 anni di livellamento ideologico e conseguenti manipolazioni jugoslave e, successivamente, di altri trenta anni di nazionalismi succeduti a una sanguinosa guerra che ha portato al crollo del regime messo in piedi da Tito.

Una sofferenza sia di chi scappò sia di chi rimase

Così, in “Adriatico”, arrivati a Capodistria, ci troviamo a leggere passi deformanti come: “Non siamo in Italia, dove il tessuto d’arte e cultura evolutosi nel corso dei secoli è molto più ricco; né esistono esistono l’accoglienza vellutata degli asburgo o l’eleganza di Trieste. Per quanto riguarda l’eredità di Venezia (…) poco resta di un regno terminato da oltre duecento anni, dove Capodistria era solo un avamposto imperiale”. Ma, ovviamente, non è il solo passo, nonostante a un certo momento l’autore citi la ricercatrice americana Pamela Ballinger che nel suo libro “La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani” scriva della nostalgia , viva in Istria, di “un mondo italiano perduto, sofferta sia da chi scappò sia da chi rimase”.

Caro Kaplan, la prossima volta che passerà da quelle parti le do il consiglio che lo stesso Raoul Pupo fa in “Quattro lezioni sul Confine orientale” pubblicato dall’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea. Ovvero “Utilizzare una storia localizzata, com’è quella della frontiera adriatica, quale chiave di accesso per intendere la grande storia del ’900. La crisi degli imperi multinazionali, i limiti degli stati per la nazione, le politiche di semplificazione nazionale, gli urbicidi (perché la sorte di Zara, Fiume, Pola è simile a quella di Königsberg, Danzica, Leopoli, Smirne). La seconda via è quella di accogliere le lezioni che vengono da questa storia dolente. Prima fra tutte, la forza devastante dell’intolleranza, che parte dalle parole ed arriva ad atti estremi, e le conseguenze oscure della volontà di omologazione ad ogni costo, che ha distrutto quel patrimonio immenso di civiltà che in tutta l’Europa orientale era costituito dalle sue diversità e lungo l’Adriatico orientale era rappresentato dall’italianità.”

Diego Zandel

Robert D. Kaplan, Adriatico, un incontro di civiltà, Marsilio, pag.377, 22,00 euro

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