Del 1973 mi piace ricordare quattro dischi LP che trovo bellissimi. “”Arbeit Macht Frei” degli Area;Ariva i Barbari “di Alberto D’Amico; “Storia di un impiegato” di Fabrizio De André e “Un uomo in crisi” di Claudio Lolli.

Quattro dischi tanto diversi tra di loro quanto potenti, originali ed espressivi.
Meritano di sicuro un posto di rilievo nella discografia italiana. L’album di esordio degli Area (Arbeit Macht Frei) ancora oggi fa venire i brividi. Qualsiasi giovane appassionato di musica lo ascolti, anche ai nostri giorni, strabuzza gli occhi ed esclama: “Urka!”. Non spenderò una parola per disquisire sulla definizione dello stile di questo gruppo.
L’atmosfera di questo primo album è del tutto originale, unica, irripetibile, irripetuta.
Il brano di apertura (“Luglio agosto settembre (nero)”) è un autentico pugno in faccia. Un’entrata a gamba tesa sul tragico e sanguinoso quadro della situazione Palestinese.
Cinquant’anni fa questi ragazzi iniziano il loro pezzo di attacco nel loro primo album con una poesia in lingua araba in un silenzio assoluto di fondo.

Lascia le armi e vieni a vivere con la pace”

Ho trovato la traduzione: è una poesia d’amore che si conclude con “Lascia le armi e vieni a vivere con la pace”. Dopodiché parte un assolo, una raffica di 24 note che fa sobbalzare e si ripete nel corso del brano. Il testo è scarno nella sua potenza evocativa: “non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all’omertà, forse un dì sapremo quello che vuol dire affogare nel sangue con l’umanità (…) quando guardi il mondo senza aver problemi cerca nelle cose l’essenzialità. Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all’umanità”. E che cosa dire del secondo brano, quello che dà il titolo all’album? Un giro di basso in sette note, così bello che fa venire voglia di imparare a suonare il basso.

Arbeit Macht Frei

Un giro che accompagna quasi tutto il pezzo peraltro costruito in modo abile ed intenso.
Un apparente caos che si ricongiunge in un ritmo che cambia in 11 note di basso come un’onda che sale. “Tetra economia, quotidiana umiltà ti spingono sempre verso Arbeit Macht Frei (…) Consapevolezza ogni giorno di più ti farà vedere cos’è Arbeit Macht Frei”.

Due pezzi che valgono l’intero disco

Un disco davvero notevole a partire dall’angosciante copertina con il pupazzo di legno e ferro che ha un che di mostruoso ed enigmatico.
Di tutt’altro stile, ambiente e tradizione è il secondo disco che mi piace ricordare: “Ariva i barbari” di Alberto D’Amico.

Tutto in stretto dialetto veneziano

La sua canzone più nota (“Cavarte dal fredo”) è stata utilizzata in svariate iniziative culturali su Venezia: anche Marco Paolini l’ha inserita nel suo spettacolo sulla città lagunare. È una Venezia di derelitti e proletari quella di cui “Cavarte dal fredo” disegna la cornice. “Cavarte dal fredo e da l’umidità, dai muri bagnai dal leto geà, portarte distante fora de qua, trovarte ‘na casa e ‘na comodità”. Cinquant’anni fa Alberto D’Amico aveva già messo a fuoco uno dei giganteschi problemi di Venezia, cioè il rapporto con il turismo. Infatti “i vien par tre mesi a fotografar colombi che svola palassi sul mar comprè cartoine che schei no ghe n’è turisti da culo che schifo che fè”. E che cosa dire dell’abbandono di Venezia (divenuta solo città di turismo) per migrare sulla terraferma?

E chi rimane quindi a Venezia…

Da Ciosa a Fusina tuto va giò portarte distante dove no so in fabrica forse in me ciaparà ‘ndaremo a Marghera forse a Milan”. E chi rimane quindi a Venezia, oltre ai turisti ed ai loro trolley con quel rumore di sottofondo da stormo di aerei turboelica?
“Ma i veci no parte i speta a morir i mor venessiani i mor col so vin. ‘e vece‘e va‘n cesa col sial e ’l cocon ‘e mor confesae disendo orasion”. La Venezia dei disperati (“El bandido dea Giudeca”), di emarginati e carcerati (come già accennato nell’articolo “Di canzoni, carcere, giustizia e … funerali” del 13 settembre 2022).
Sullo sfondo si staglia il tema dell’inquinamento e dell’ambiente: “Ti sa miga cossa xe Marghera xe cal logo dove ‘l mar ghe gera tanto tempo fa pensa xe casca’ en pianeta en mar tuto infogà …”).

Dieci anni di differenza che valgono una generazione

Il 1973 è stato anche l’anno di importanti album di due tra i cantautori più significativi del nostro Paese: uno già affermato, Fabrizio De Andre’, l’altro allora emergente, Claudio Lolli. Tanto uniti dalla sensibilità, dal genio e dalla poesia, quanto lontani nell’approccio alla realtà contingente. Dieci anni di differenza che valgono una generazione. “Storia di un impiegato” è uno degli album di De Andrè di cui si è parlato meno: il meno citato, forse il meno conosciuto.
Però Claudio Bisio (che, si capisce lontano un miglio, con i movimenti giovanili degli anni ’70 ha avuto a che fare) qualche anno fa ha avuto l’idea di dedicargli uno spettacolo teatrale.

Il dilemma di un giovane ben integrato

Il disco è sorretto da una colonna sonora magistrale di un giovane Nicola Piovani.
Il “concept album” si dipana iniziando con la folgorante ballata del Maggio francese.
Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di cambiare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti …”. È il dilemma di un giovane ben integrato che si trova al cospetto del Movimento. “Ed io contavo i denti ai francobolli. Dicevo grazie a Dio, “Buon Natale”, mi sentivo normale eppure i miei trent’anni erano poco più dei loro ma adesso basta adesso torno al lavoro”.

De Andrè guarda al Maggio francese

Le cose cambiano e assume scelte radicali. “Chissà cosa si prova a liberare la fiducia nelle proprie tentazioni eliminare gli intrusi dalle nostre emozioni…”.
De Andrè guarda al Maggio francese, ma è come se non si fosse accorto che in Italia quel maggio durava da sei anni. Sembra strizzare l’occhio all’ipotesi del gesto dell’anarchico individualista, radicalmente antisistema, che si trova suo malgrado intrappolato in una logica strumentale del potere. È “Il bombarolo”: “Chi va dicendo in giro che odio il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo … Intellettuali d’oggi, idioti di domani ridatemi il cervello che basta alle mie mani…”.

La storia finisce con la galera

La canzone che chiude il disco è una manciata di sale sulla ferita ancora oggi aperta della nostra situazione carceraria. “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va ed ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà. Se c’è una cosa da spartire tra un prigioniero ed il suo piantone che non sia l’ombra di quel cortile voglio soltanto che sia prigione”. Il tema individuale diventa collettivo. “Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va ed abbiamo deciso di imprigionarli durante l’ora di libertà. Venite adesso alla prigione, state a sentire sulla porta la nostra ultima canzone che vi ripete un’altra volta: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”.
Questo passaggio dall’individuale al collettivo, l’idea dell’inevitabile coinvolgimento del “tutti – comunità” nelle vicende dell’individuo mi fa venire in mente qualcosa.

Penso a “Homo sum: humani nihil a me alienum puto”

Era Terenzio ed era il 165 a.C. Tutto sul registro del rapporto tra collettività ed individuo, tra Storia del singolo e Storia collettiva si gioca il capolavoro di Claudio Lolli.
Un uomo in crisi” è il suo secondo disco. La cornice è tracciata dalla stupenda “Io ti racconto”, impreziosita dagli arabeschi della chitarra trattata di Stefan Grossman.
Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta ad ore di gente che non sa più far l’amore, ti dico la malinconia di vivere in periferia del tempo grigio che ci porta via. Io ti racconto la mia vita il mio passato il mio presente anche se a te lo so non importa niente … Ti dico la disperazione di chi non trova l’occasione per consumare un giorno da leone, di chi trascina la sua vita in una mediocrità infinita con quattro soldi stretti tra le dita. Io ti racconto la pazzia che si compra in chiesa o in drogheria: un po’ di vino, un po’ di religione …”.

E così prosegue con uno sgomento urbano…

Hai mai visto una città dove i sogni rimbalzano sulle finestre ed i vetri riflettono vetri d’estate e d’inverno e spalancano gli occhi a cortili quadrati e deserti …”.
E spaccati d’infelici e tetri interni di famiglia come “La guerra è finita”.
La guerra in realtà non è finita perché in “Morire di leva” Lolli ci racconta del suicidio di un suo commilitone militare. Ma in questo disco c’è un momento in cui si eleva una sintesi, una canzone straordinaria. Un manifesto di quel concetto prezioso che iniziava a prendere forma dentro il Movimento in quegli irripetibili anni: “Il personale è politico ed il politico è personale”. Cambiare noi per cambiare il mondo, cambiare il mondo per cambiare noi.

Volersi giocare il futuro a costo di scelte radicali

Mi riferisco a “La giacca”. “Bisogna andare fino in fondo, in fondo a tutto, in fondo a noi, in fondo agli argini del mondo, alla paura che mi fai, fino in fondo alle tue cosce, ai miei timori, alle tue angosce, fino in fondo alla pianura, all’orizzonte della città”.
È il sentimento forte di volersi giocare il futuro a costo di scelte radicali.
È la frase secca che si ripete e che non mi viene di svilire chiamandola ritornello: “E se domani la mia giacca sarà la giacca di un disgraziato non sarò mai così fregato come tuo padre”. Son passati cinquant’ anni. Queste parole, queste idee, questi concetti, quel clima mettono i brividi. Eccoci qui, “malinconici forse, ma mai rassegnati”.
Anche se pare che siamo stati fregati tutti: padri, figli e anche nipoti.

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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