Un aspetto non sufficientemente considerato nel dibattito verso le prossime elezioni europee del 26 maggio riguarda le conseguenze che il voto avrà sul ruolo dell’Unione Europea e sulla possibilità della stessa di continuare a rappresentare gli ideali e difendere i principi sui quali si fonda la sua esistenza e la nostra convivenza.

Con due decisioni senza precedenti in tutta la sua storia, alla fine del 2017 e nel settembre 2018 la Commissione e il Parlamento europeo, su sollecitazione del Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs (LIBE), hanno avviato nei confronti rispettivamente di Polonia e Ungheria la particolare procedura di infrazione prevista dall’art. 7.1 del Trattato sull’Unione Europea (la cosiddetta “rule of law”), in quanto accusate di minare, con alcuni provvedimenti interni, i valori democratici dell’Unione elencati all’articolo 2 dello stesso Trattato e che prevedono: “Il rispetto della dignità̀ umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”.

Non è qui oggetto di interesse approfondire i temi sostanziali delle due procedure di infrazione, ma comprendere il contesto in cui esse sono maturate e come potranno evolvere dopo le prossime elezioni europee, dal momento che in gioco v’è ben altro e molto di più del “caso Polonia” o del “caso Ungheria”.

La novità e la straordinarietà delle due decisioni spiegano bene l’importanza dell’iniziativa. Attivando uno strumento di prevenzione a tutela dei valori fondanti e dei principi generali e condivisi sui quali si regge la propria Carta costituzionale, l’Unione ha messo in gioco la sua stessa identità ed esistenza.

Non è un caso che il dibattito per arrivare alla decisione sia stato molto lungo e tormentato, con posizioni opposte e contrastanti, non solo degli esponenti dei partiti cosiddetti “euroscettici”, ma anche di componenti dello stesso Partito Popolare Europeo, ovvero il partito che nel Parlamento ha oggi la maggioranza relativa.

È quanto mai significativo il fatto che, in prima istanza, la contrapposizione tra le diverse fazioni non ha riguardato tanto il merito dei provvedimenti legislativi adottati dai due Paesi, ma la stessa possibilità per l’Unione di sindacare tali scelte, allorquando esse violino quei valori sui quali l’Unione è nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale, valori che sono stati affermati dopo il disastro che ne è seguito e nei quali, da allora, tutti i Paesi aderenti hanno deciso di riconoscersi.

Ora, proprio l’acceso dibattito che ha accompagnato le due procedure ci porta ad esaminare le possibili conseguenze delle elezioni di fine mese sul prossimo ruolo dell’Unione. L’elettore, infatti, sarà chiamato a decretare non solo o non tanto il successo di una o dell’altra forza politica interna, o l’aumento di un decimo di punto dello spread, ma se si riconosce in quel sistema di diritti e valori che l’Unione rappresenta e tutela.

Ciò perché, a seconda dell’esito del voto, l’Europa potrebbe intraprendere due strade totalmente diverse.

Nel caso di un consolidamento delle forze “europeiste”, si assisterebbe con molta probabilità ad un rafforzamento della capacità dell’Unione di ribadire, garantire, tutelare i propri valori fondanti, anche mediante un rafforzamento della capacità sanzionatoria nei confronti dei Paesi che se ne discostano. Essa (ri)troverebbe nuova energia e legittimazione nel riaffermarsi come simbolo identitario e luogo di coesione e convivenza.

Non si tratta solo di rivendicare meri principi, per quanto importanti. L’incapacità nel passato di far rispettare i predetti principi è stata la ragione, ad esempio, per la quale non è stato possibile costringere i Paesi europei a rispettare gli obblighi di accoglienza delle quote dei migranti, fattore che ha interessato e penalizzato innanzitutto l’Italia.

Nel caso, invece, di un successo elettorale delle forze cosiddette “euroscettiche” o “sovraniste” si assisterebbe ad un immediato indebolimento della capacità dell’Unione di intervenire sui Paesi membri per far rispettare i propri valori costituenti: il che equivarrebbe già nel breve termine a decretarne la sua inutilità e quindi, quasi naturalmente, la scomparsa.

Per questo oggi i partiti “euroscettici” e “sovranisti” non chiedono quasi più direttamente l’uscita dei rispettivi Paesi dall’Unione. Essi sanno che, se raggiungessero la maggioranza, l’Unione cesserebbe già di esistere, almeno nella forma che oggi conosciamo.

La decisione tra le due strade dipenderà dal voto di fine mese e, in questa ottica, sarà determinante non solo il risultato elettorale delle forze politiche dichiaratamente antieuropeiste, ma anche quello dei partiti che oggi compongono il PPE. Un equilibrio interno spostato sui partiti più conservatori (Orban e il PiS Polacco, ad esempio, sono oggi nel PPE; ma lo stesso Partito popolare spagnolo ha condotto una campagna molto conservatrice sui temi dei diritti nelle recentissime elezioni nazionali) sarebbe più decisivo ancora dei consensi ricevuti dai partiti euroscettici nell’indirizzare il futuro dell’Unione.
In un senso o nell’altro, anche e soprattutto per questo si voterà il 26 maggio.

Lorenzo Lamberti

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