Nella lavorazione di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” c’è tutto il cinema di Pier Paolo Pasolini. C’è l’impegno politico, c’è la voglia di provocare, c’è il pessimismo della ragione, c’è la volontà di denunciare, c’è la magia del racconto e l’abominio della degradazione morale, c’è lo scontro con la malavita e c’è la sua passione per il calcio. E, soprattutto, c’è il testamento spirituale di uno dei più importanti uomini di cultura italiani.

Dopo il grandissimo successo della Trilogia della vita da lui diretta a inizio anni Settanta (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte) per il produttore Alberto Grimaldi, Pasolini progetta per lo stesso produttore una Trilogia della morte della quale Salò sarà il primo episodio. All’erotismo spontaneo di quei tre film, Pasolini intende contrapporre come la sessualità sia stata corrotta dal potere e dal capitalismo, diventando non più gioia ma per l’appunto causa scatenante di violenza e di morte. Contemporaneamente, sul Corriere della Sera attacca i poteri che stanno minando la convivenza in Italia e nel lungo saggio che non finirà mai, Nerolio, attacca senza mezzi termini Eugenio Cefis, petroliere che a suo parere è dietro le trame golpiste che insanguinano l’Italia con bombe e attentati.

Come primo episodio della nuova trilogia, Pasolini immagina una storia ambientata durante la repubblica di Salò ma ispirata alla narrazione di De Sade. Vuole mettere in scena un potere assoluto che agisce senza cercare alcuna legittimazione, che usa il sesso come strumento di oppressione e la risata come irrisione dei sottoposti (riso minore, direbbe Bataille). Mobilita i suoi amici: Laura Betti sarà una maitresse, Sergio Citti dirigerà il film con la supervisione dello stesso Pasolini, Ninetto Davoli sarà un giovane schierato con i repubblichini torturatori. E Pupi Avati dovrà scrivere la storia e curare i dialoghi. Tutta l’azione si svolgerà dentro una villa dove i nazisti hanno portato dei giovani catturati durante un rastrellamento e il potere (impersonato da un quartetto di libertini composto da un nobile, un vescovo, un giudice e il presidente di una banca che chiaramente rappresentano quattro articolazioni del potere) infierirà sui loro corpi con ogni possibile crudeltà.

Pupi Avati scrive i dialoghi ma non è soddisfatto di come Pasolini vuole realizzare il film e toglie la firma dal progetto. Ninetto Davoli si sfila, e anche Laura Betti preferisce fare altro. Per ultimo Sergio Citti da a Pasolini il colpo finale: “Caro Pier Paolo, io non riesco a dirigere questa storia, l’unico che può farlo sei tu”: Il produttore Alberto Grimaldi è sempre più preoccupato, e anche lui spinge Pasolini verso la regia. Pasolini si convince e lavora con un cast di sconosciuti ai quali si aggiungono Paolo Bonacelli, la francese Helene Surgere che era l’attrice feticcio del suo amico Paul Vecchiali e le due dive dei telefoni bianchi Elsa De Giorgi e Caterina Boratto, tutte e tre convinte da Pasolini ad accettare il ruolo di squallide e viziose collaborazioniste.

Nel febbraio del 1975 il film entra in lavorazione. Si gira tra Bologna, Castelfranco Emilia, Brescia e Sabbioneta. La villa principale set del film è villa Aldini, storica dimora con parco nelle vicinanze di Bologna. Il set è superblindato data la scabrosità delle scene, i giornalisti sono ammessi solo durante le riprese a Castelfranco quando si svolge il rastrellamento iniziale che porta alla cattura delle giovani vittime. E infatti le prime notizie dal set parlano di Pasolini che dirige un film in stile neorealista: niente di più lontano dalla realtà. Nonostante la scabrosità delle riprese, le comparse raccontano di grandi cene collettive offerte da Pasolini a tutta la troupe a base di risotti. Inoltre, Pasolini sfida l’amico Bertolucci (che negli stessi giorni sta girando in Emilia il suo Novecento) a una partita di calcio tra le troupes dei due film. Pasolini è un ottimo calciatore ed è sicuro di vincere, ma non andrà così: Bertolucci, anche lui molto competitivo, arruola nella sua squadra due giocatori delle giovanili del Parma spacciandoli per elettricisti, e vince a mani basse il confronto. Pasolini, scoperto l’inganno, si arrabbierà moltissimo: ecco come andarono i fatti.

Ma i problemi per Pasolini saranno ancora più gravi. Una notte, ignoti ladri rubano alcune scatole con il girato del film, quelle che riguardano l’orgia collettiva finale nella villa. Subito dopo, un esponente della malavita romana (forse legato alla banda della Magliana, allora in fase di formazione) chiede un riscatto. Ci sono trattative, Pasolini si cautela montando nel film le scene che rano state scartate. Uno studioso, David Grieco, sosterrà nel libro “La macchinazione” che fu proprio la richiesta di quel riscatto a spingere Pasolini a quel tragico appuntamento la notte del 2 novembre 1975 a Ostia, dove più persone lo uccisero facendo scempio del suo corpo.

“Salò o le 120 giornate di Sodoma” uscirà in Italia il 10 gennaio 1976, due mesi dopo la morte di Pasolini. Naturalmente fu sequestrato poco dopo, per poi essere processato e nuovamente distribuito due anni più tardi. Il cupo pessimismo del film, insieme alla lucida analisi di Petrolio, danno il senso della profonda disillusione di Pasolini e contemporaneamente della sua forte volontà di continuare a lottare, a denunciare, a trasgredire.

Steve Della Casa

Steve Della Casa

Critico cinematografico e giornalista. E stato tra i fondatori del Torino Film Festival, che ha diretto fino al 2002. Ha presieduto dal 2006 al 2013 la Film Commission Torino Piemonte e ha diretto dal...

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