Ci eravamo lasciati nell’ultimo articolo che esplorava la situazione nel Far East dove è in corso una grande battaglia per riorganizzare le zone di influenza tra Stati Uniti e Cina. Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha visitato nel giro di una settimana oltre 8 delle piccolissime isole del Pacifico nell’ottica di assoggettarle ad un maggior presidio diretto cinese.

Pechino nel Pacifico fa sul serio

La faticosa e concitata trasferta non ha portato, almeno per ora, grandi risultati a Pechino. La controffensiva diplomatica americana e australiana ha ridotto il consenso iniziale verso l’ipotesi progettuale cinese. E questo primo vero e proprio “attacco” di Pechino alle piccole nazioni del Pacifico (stiamo parlando di 14 nazioni sovrane e 7 territori che coprono il 15% della superficie mondiale e non arrivano a 13 milioni di abitanti), è stato apparentemente un fallimento.

Non dobbiamo però illuderci. Siamo di fronte a una grande campagna elettorale che Biden da una parte, con tutti i suoi alleati locali e occidentali e Xi Jinping dall’altra stanno combattendo. Per ora, sul piano diplomatico, per modificare gli equilibri dello scacchiere politico nel Pacifico. La situazione è estremamente fluida e a tal punto strategica per entrambi gli schieramenti che la guerra in corso in Ucraina potrebbe costituire un ostacolo alla sua implementazione.

La Cina punta a una centralità globale

Infatti, anche se nessuna cancelleria ha ancora confermato questo ragionamento, la Cina ha bisogno per ottenere i risultati che si prefigge in termini di centralità nel nuovo mondo economico del III millennio. Ha bisogno di un contesto pacifico, non caratterizzato da eccessivi scontri militari o politici. Ha bisogno di un Villaggio Globale disponibile a negoziare con il governo cinese nuove relazioni prospettiche basate sulla sicurezza e sulla prosperità economica derivante dagli aiuti cinesi.

Questo pensiero starebbe “a monte” dell’ultimo colloquio intervenuto fra il presidente cinese e Putin. Per la prima volta Pechino avrebbe invitato Mosca a una maggior flessibilità nei confronti del dossier Ucraina, cercando di trovare una soluzione che possa permettere a breve una tregua degli scontri armati e a breve-medio una pace dignitosa per entrambe i contendenti. “L’invito” cinese sarebbe stato inoltrato a Putin con una stretta correlazione anche ad eventuali conseguenze di un rifiuto russo. L’amicizia tra Pechino e Mosca, confermata in tutti gli incontri intervenuti negli ultimi mesi tra i due leader potrebbe essere incrinata. Con immediate conseguenze economiche penalizzanti per i russi, di fronte ad un atteggiamento putiniano rigido e concentrato soltanto sulla distruzione della nazione ucraina. Venti di pace dunque? Non illudiamoci.

Il dragone ha un problema di crescita

Proprio in questi giorni il Consiglio di Stato cinese, sostanzialmente il governo, ha redatto un documento contenente 33 soluzioni per ridare slancio all’economia cinese che negli ultimi mesi ha segnato incrementi ridotti rispetto al recente passato. La pandemia e i diversi lock-down intervenuti hanno pesantemente inciso sul PIL cinese. E il governo è corso immediatamente ai ripari per evitare problematiche soprattutto sociali all’interno del suo territorio. L’obiettivo del documento è quello di individuare linee di investimento pubbliche e private per una ripresa della crescita già nella seconda metà del 2022. Non dimentichiamoci che il governo cinese si era dato quest’anno un obiettivo di crescita del PIL intorno al 5.5%. Obiettivo ben lontano da quello che le agenzie internazionali hanno riveduto al ribasso nelle ultime settimane.

Xi Jinping sposta l’attenzione dei cinesi sulle vicende internazionali

In questo contesto domestico complicato, in cui non vi è la certezza dei risultati a breve, il governo sposta l’attenzione dei cinesi sulle vicende internazionali. Questo sottolinea l’importanza di una strategia che consenta il consolidamento di un ruolo di leadership nelle nuove geo-mappe politiche ed economiche mondiali. In altre parole, Xi Jinping utilizza un vecchio strumento spesse volte utilizzato nella storia dai leader in difficoltà. Ovvero spostare l’attenzione del proprio popolo su argomenti diversi da quelli critici. L’ipotesi di lavoro è quella di ripetere l’accordo intervenuto con le isole Salomone, dove la Cina ha ottenuto la concessione per 75 anni di una base sul territorio per fini apparentemente logistici e non militari. Si vorrebbe replicare tale modello anche in molte delle altre isole del Pacifico.

La China Sam Enterprise Group per influenzare i mercati

Da notare che il governo cinese si è avvalso di uno strumento giuridico che richiama la storia dell’Europa e soprattutto della Gran Bretagna dell’800. Infatti proprio sull’esempio del successo della leggendaria Compagnia delle Indie utilizzata da Londra per lo sviluppo dell’impero coloniale, Pechino ha costituito un’azienda a capitale pubblico ma che si muove come un attore privato nello scacchiere del Pacifico. Si chiama China Sam Enterprise Group e ne sentiremo parlare presto come lo strumento usato dal governo cinese per aumentare la sua influenza internazionale non in maniera ufficiale e diplomatica ma in maniera sostanziale ed economica.

La reazione americana

Come detto, Washington e i suoi alleati locali sono corsi subito ai ripari e sull’esempio delle isole Fiji, molte piccole nazioni locali hanno sbattuto, per ora, la porta in faccia ai cinesi rimanendo alleati degli americani. E’ ovvio che questa politica avrà un costo importante per tutti gli occidentali in quanto le singole, piccole isole del Pacifico stanno impostando una vera e propria asta tra i due candidati per ottenere i massimi vantaggi in termini politici ed economici. L’Alleanza Economica per la Prosperità (denominata IPEF), creata proprio da Biden nei mesi scorsi, costituisce la diga degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel territorio per arginare la nuova Compagnia delle Indie in salsa pechinese. Uno dei tempi più spinosi di questo confronto è ovviamente il futuro dell’isola di Taiwan.

Il futuro di Taiwan

Proprio la scorsa settimana, a Singapore, si è svolto il summit dedicato alla sicurezza regionale del sud e dell’est asiatico. Presenti tutti i Ministri della Difesa degli stati coinvolti, si è discusso ovviamente dell’invasione russa nell’Ucraina, ma il focus dei confronti tra i vari partecipanti è stato incentrato soprattutto su Taiwan. Le dichiarazioni rese pubbliche dal Ministro della Difesa americano Austin e da quello cinese Weu Fenghe sono state violentissime. I due diplomatici si sono scambiati minacce del tenore: “Se qualcuno oserà dividere Taiwan dalla Cina, l’esercito di Pechino non esiterà a intraprendere una guerra per impedirlo”, ha detto Fenghe. Gli ha ribattuto subito Austin: “Qualsiasi attacco a Taiwan verrà considerato dall’America come una dichiarazione di guerra”.

Gli analisti internazionali presenti a Singapore condividono l’ipotesi che Xi Jinping punti sicuramente ad annettere Taiwan con le buone o con le cattive. Sa di non poterlo fare subito, ma deve poter realizzare questo obiettivo nei prossimi anni, magari approfittando di un altro momento di debolezza degli americani. Quando Xi Jinping minaccia una guerra per Taiwan, si riferisce all’ipotesi che il governo dell’isola proclami ufficialmente la propria indipendenza. Cosa che a Taipei il governo locale si è ben guardato dal fare anche se Taiwan è da oltre settant’anni di fatto indipendente.

Tra Usa e Cina un Risiko appena iniziato

Formalmente le posizioni americane e cinesi sono le seguenti: Washington riconosce a parole che esiste una sola Cina di cui Taiwan nominalmente fa parte. Nel contempo, fornisce armamenti a Taiwan per salvaguardarne una indipendenza non dichiarata. Questo è il paradossale equilibrio che ha permesso in questi oltre settant’anni di non scatenare un conflitto armato tra le due superpotenze. La Cina, da parte sua, come abbiamo detto, punta ad annettere Taiwan aspettando con pazienza il momento più propizio. Insomma, siamo in piena bagarre diplomatica: il Risiko del Pacifico è appena ricominciato.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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