“Scarso utilizzo delle risorse stanziate per il Fondo progettazione contro il dissesto idrogeologico e inefficacia delle misure sinora adottate, di natura prevalentemente emergenziale e non strutturale”.  Lo scrive la Corte dei conti nella sua relazione pubblicata pochi giorni fa sul Fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico (2016-2018), da cui risulta che le risorse effettivamente erogate alle Regioni rappresentano, negli anni oggetto dell’indagine, solo il 19,9% del totale complessivo (100 milioni di euro) in dotazione al Fondo, a testimonianza dell’inadeguatezza delle procedure, della debolezza delle strutture attuative degli interventi, dell’assenza di controlli e monitoraggi. “Infatti, è stata erogata dal ministero dell’Ambiente, in base alla normativa stabilita, soltanto la prima tranche del 26% dell’importo richiesto da ciascuna Regione; non è stata erogata la seconda tranche, pari al 47%, non avendo nessuna Regione completate le progettazioni finanziate.”

Qui sopra e in copertina, Alluvione di Firenze, Novembre 1966

Del dissesto idrogeologico del nostro paese si sa tutto da decenni. Un anno dopo l’alluvione di Firenze del 1966 venne istituita una “Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo”, conosciuta come Commissione De Marchi, dal nome del suo presidente, Giulio De Marchi, uno dei massimi ingegneri idraulici. Tre anni dopo la commissione produsse un rapporto di 3.500 pagine e cinque volumi, in cui c’era tutto: analisi dei rischi, interventi necessari e loro quantificazione finanziaria.

Tutto rimasto lettera morta, alluvione dopo alluvione, frana dopo frana, fino al 2014, quando il governo presieduto da Matteo Renzi approvò il decreto legge soprannominato “Sblocca Italia”, che dichiarava il dissesto idrogeologico un’emergenza e prevedeva misure urgenti per la sua mitigazione. Il governo quantificava in 3,5 miliardi di euro l’anno la spesa affrontata dallo Stato, dal 1945 al 2014, per danni e risarcimenti da frane e alluvioni.

Alle denunce, alle analisi e ai propositi del governo Renzi, si può non aggiungere nulla. Infatti un documento di quel governo di cinque anni fa, dopo aver ricordato la frase di Leo Longanesi secondo cui “Alle manutenzioni l’Italia preferisce le inaugurazioni”, forniva una serie di dati e di considerazioni che spiegavano la necessità di intervenire con urgenza:

– Ridurre e gestire il rischio non è un costo ma è un investimento chiave per far ripartire il paese, sbloccare economia e lavoro.

– Lo stato di dissesto si intreccia con una impressionante carenza pianificatoria di superficie, con la quasi scomparsa delle manutenzioni, con abusi del suolo, con la scarsa percezione della dimensione dei pericoli e la scarsa conoscenza dei fenomeni.

– Solo poco più di un terzo dei Comuni mitiga oggi, per tanti motivi e in testa i vincoli del Patto di stabilità, il rischio idraulico. Qualcuno lo peggiora. Nel 42% dei centri abitati non viene svolta regolarmente la manutenzione ordinaria di fossi e corsi d´acqua, canali di drenaggio e scolo.

– Paghiamo costi stellari a nostra insaputa. Lo stress ambientale e il dissesto consumano una fetta sempre più elevata del bilancio dello Stato. Sappiamo che 1 euro speso in prevenzione fa risparmiare fino a 100 euro in riparazione dei danni. Ma siamo tra i primi al mondo per risarcimenti e riparazioni di danni da eventi di dissesto: dal 1945 l’Italia paga in media circa 3.5 miliardi l’anno. Dal 1950 ad oggi abbiamo contato 5.459 vittime in oltre 4.000 tra frane e alluvioni. Il dissesto idrogeologico è una delle ragioni dell’aumento del gap infrastrutturale nel nostro Paese. Non franano solo terreni o case provocando dei lutti, ma anche strade e autostrade, ferrovie, reti idriche ed elettriche. Il deterioramento del territorio costituisce una voce fortemente negativa nel bilancio economico di un Paese, accumula debito futuro. Anche in una visione strettamente ragionieristica è positivo investire in prevenzione.

Alluvione e frana in Valtellina, luglio 1987 (Consiglio nazionale dei geologi)

Pochi mesi dopo quel decreto legge, l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) pubblicò il Rapporto di sintesi sul dissesto idrogeologico in Italia 2014, un lavoro che racchiude oltre ai fenomeni franosi e alla popolazione esposta a rischio, anche i principali punti di criticità per frane lungo le infrastrutture lineari di comunicazione, le aree a pericolosità idraulica e le misure per la mitigazione del rischio idrogeologico.

L’inventario dei fenomeni franosi in Italia, realizzato dall’Ispra, ha censito 499.511 frane, che interessano un’area di 21.182 kmq, pari al 7% del territorio nazionale. La popolazione esposta a fenomeni franosi ammonta a 1.001.174 abitanti.

Per quanto riguarda le principali infrastrutture lineari di comunicazione, l’Ispra stima 6.180 punti di criticità per fenomeni franosi lungo la rete stradale principale (autostrade, superstrade, strade statali, tangenziali e raccordi), di cui 720 lungo la rete autostradale. Lungo i 16.000 km di rete ferroviaria sono stati individuati 1.862 punti di criticità per frana.

La cementificazione e l’impermeabilizzazione del suolo, anche in aree a rischio, è in gran parte responsabile dei disastri che si accumulano anno dopo anno. Sempre da un Rapporto dell’Ispra emerge che quasi il 20% della fascia costiera italiana – oltre 500 Kmq, l’equivalente dell’intera costa sarda – è ormai irrimediabilmente perso. E’ stato impermeabilizzato il 19,4% di suolo fino a 300 metri di distanza dalla costa e quasi e il 16% compreso tra i 300 e i 1.000 metri. Spazzati via anche 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica e il 5% delle rive di fiumi e laghi. Il cemento ha invaso persino il 2% delle zone considerate non consumabili (montagne, aree a pendenza elevata, zone umide).

A livello nazionale la percentuale di suolo direttamente impermeabilizzato è stimata al 7% (il 158% in più rispetto agli anni ’50), ma la quantità di territorio che, anche se non direttamente coinvolto, ne subisce gli impatti devastanti, è superiore al 50%.

Nella classifica delle regioni “più consumate”, al primo posto troviamo Lombardia e Veneto (intorno al 10%), mentre alla Liguria vanno le maglie nere della copertura di territorio entro i 300 metri dalla costa (40%), della percentuale di suolo consumato entro i 150 metri dai corpi idrici e quella delle aree a pericolosità idraulica, ormai impermeabilizzate (il 30%).

https://video.corriere.it/matera-strade-centro-storico-trasformate-torrenti/a151c8ea-0545-11ea-a1df-d75c93ec44da

Alluvione a Matera, 12 novembre 2019

Le cifre di decenni di gestione irresponsabile di un territorio già fragile di per sé ci sono tutte. Le soluzioni pure. La dimostrazione che si è speso di più per riparare e risarcire di quanto sarebbe stato necessario per prevenire è sotto gli occhi di tutti. Eppure, ogni anno, soprattutto in autunno e primavera si ripete la solita tragedia di alluvioni e frane, morti, feriti e danni. E ogni volta viene subito dichiarato lo stato di emergenza e garantiti fondi per i territori e le popolazioni colpite. E anche quest’anno siamo puntualmente daccapo.

Nella caparbietà con cui non si investe nella prevenzione del dissesto idrogeologico, pur sapendo che ci è costato 3,5 miliardi l’anno negli ultimi 75 anni e che è la grande emergenza ambientale del nostro paese, c’è la responsabilità politica di chi ormai sa dove potranno avvenire frane e alluvioni, con le conseguenze tragiche che possono derivarne, e poco-nulla fa, come denuncia la Corte dei conti. Salvo poi correre a promettere soldi e aiuti quando i disastri sono avvenuti. Perché la prevenzione ha un lato molto debole: elettoralmente non paga, rende invisibili. Cosa c’è di più invisibile di un disastro mai avvenuto, perché prevenuto ed evitato?

Beniamino Bonardi

Beniamino Bonardi

Il direttore responsabile de L'Incontro

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