“Non c’è nulla di più difficile da gestire, di esito incerto e così pericoloso da realizzare dell’inizio di un cambiamento.”

 

Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al dott. Domenico Arcuri è stata affidata l’immensa responsabilità di attuare e coordinare le misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica, compito in cui ha dimostrato grandissimo senso civico e coraggio.

Inoltre, nella fase due dell’epidemia, abbiamo assistito ad aspri contrasti fra i partiti di maggioranza per il rinnovo dei consigli di amministrazione di aziende controllate dalla Stato.

Abbiamo anche 15 task force, composte da oltre 450 tra esperti e consulenti e ad oggi il governo Conte è composto da 65 membri tra premier, ministri, viceministri e sottosegretari. A questi si aggiungono staff, segretari generali, capi di gabinetto, segreterie tecniche, uffici legislativi e dirigenti di ogni ordine e grado della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri.

A prescindere da qualsiasi considerazione sull’efficacia di queste strutture e nomine, il comune denominatore tra esse è il criterio di cooptazione di fatto con cui sono stati saturati i ruoli.

Tuttavia questa non è una novità legata esclusivamente alla crisi corrente: fonti autorevoli rilevano come un processo simile configuri già da tempo le carriere in Magistratura, nelle Università e nelle Regioni. Si può quindi definire il metodo cooptativo un modus operandi ormai scontato e assolutamente centrale nella vita del Paese.

Ma quale è l’effetto dell’applicazione di questo processo sulle performance e sul benessere di una comunità a cui questi organi si rivolgono? 

Nell’emergenza che viviamo, il processo di cooptazione è associato ad uno stile di leadership altamente delegante, come ultimamente dichiarato dal governo Conte, rispetto a molti aspetti centrali della vita del paese. Ma che ritorno se ne avrà nel breve periodo?

Il primo distinguo da fare è che il processo di cooptazione può avere applicazioni molto diverse. Può essere esercitato in stretta oligarchia – ed alcune delle critiche rivolte al premier ultimamente alludono a questo – oppure attraverso una base più allargata, coinvolgendo attori più o meno formali nel processo di decisione. Inoltre, può essere esercitato in meritocrazia, come teorizzato già da Gramsci, in base cioè ai meriti, ai titoli ed ai risultati ottenuti precedentemente alla nomina – il dott. Arcuri ed altri ne sono un esempio – o in maniera aleatoria, come nel caso del nostro Ministro dell’Istruzione e del suo predecessore. In tutti i casi elencati, però, l’esercizio di un criterio cooptativo è un processo che necessita di grande responsabilità e che in Italia trovò l’apice della sua applicazione positiva, a livello partitico, nella sinistra Berligueriana. In ogni caso, nell’esercizio di tale criterio, vengono mantenuti tratti antidemocratici di cui è bene soppesare le ricadute.

Contrariamente a quanto spesso erroneamente riportato, un processo cooptativo non è in antitesi al merito. Merito o meritocrazia sono buzz words molto in voga per descrivere qualcuno che ha ottenuto un risultato senza facilitazioni esterne e vengono utilizzate in opposizione rispetto ad un processo cooptativo spesso poco trasparente nella sua esecuzione o ragionevolezza. In realtà, in questo caso sarebbe preferibile parlare di performance misurabile. L’associazione mentale fra performance misurabile e merito ci deriva da Paesi a stampo Protestante dove si predilige l’idea culturale secondo la quale il valore dell’individuo dipende anche da ciò che materialisticamente raggiunge. Anche in queste nazioni però, in questi casi si parla di processi competitivi e non di merito, poiché è chiaro che la categoria del merito include sicuramente una performance misurabile ma anche l’etica e la morale, oggigiorno largamente snobbate a favore del più semplice e banale successo.

Parlando più specificatamente dell’Italia si può da più fronti concordare sul fatto che il Paese è in una fase decrescente, che coinvolge molti degli aspetti economici, istituzionali e sociali. Alcuni esempi ne sono la stagnazione economica, l’impreparazione politica alla gestione del bene comune, l’incapacità di replicare a politiche socioculturali gestite dall’esterno e la continua ricerca di consenso da parte di governi con outlook instabile. Molti suggeriscono che: “l’organizzazione, su moltissimi livelli, da mezzo per raggiungere uno scopo, è divenuta fine a sé stessa. L’organo ha finito per prevalere sull’organismo. Alle istituzioni che originariamente avevano soltanto il compito di assicurare il funzionamento della macchina viene data un’importanza maggiore che al livello di produttività stessa. Suprema legge diviene la tendenza ad eliminare tutto ciò che potrebbe fermare il meccanismo e minacciare così la sua forma esteriore, l’organizzazione” (Michaels, 1925).

Alcuni parallelismi con questa situazione possono essere rintracciati nel periodo che va dal novembre 1991 all’agosto 1998 in Russia, come ben dettagliato nel libro di politica economica “Without a Map” di Shleifer e Treisman. Gli autori descrivono come, tramite riforme, siano riusciti a sostituire un ordine costruito sulla possessione di stato, sulla pianificazione centrale e sull’eccessiva burocrazia con un ordine basato sulla proprietà privata, la coordinazione dei mercati e lo scambio su base volontaria, realizzando così una loro visione, avvalorata da dati scientifici, che avrebbe determinato maggior benessere alla comunità. La prima positiva considerazione è che furono effettivamente in grado di portare avanti delle riforme riducendo le opposizioni, in un contesto estremamente difficile, fino a conseguire un benessere maggiore per la popolazione. Sotto molti aspetti le riforme da loro introdotte furono un successo, come dimostrato dalla rimozione del controllo sui prezzi, dalla liberalizzazione dell’export, dall’aumento dell’impiego privato dal 13 al 91% e dalla generale crescita economica. D’altra parte, mostrarono anche grandi limiti poiché la stabilità economica, dopo essere stata finalmente raggiunta nel 1995, si rivelò in ogni caso fragile. La privatizzazione operata in maniera eccessivamente rapida condusse ad uno strapotere dei colletti bianchi ed alla concentrazione delle risorse naturali del Paese nelle mani di un piccolo gruppo di imprenditori con forti legami politici. Ancora più preoccupante per il medio periodo, fu il fatto che il governo rimase comunque debole a tutti i livelli, corrotto, disorganizzato e carente di efficacia.

Le riforme sarebbero potute essere implementate con tattiche più efficaci, ma la mancanza di competenza e la corruzione diffusa ne limitarono l’esecuzione. È opinione comune che ciò fu dovuto principalmente a tre fattori. Il primo fu l’incapacità dei leader politici di resistere alla pressione dei gruppi di potere e la loro limitata capacità di implementare il governo in aree e situazioni difficili.

Il secondo fattore fu la debolezza della classe media in gran parte derivata dall’indottrinamento perseguito a tutti i livelli durante l’era sovietica che aveva creato una cittadinanza sfiduciata, prudente, slegata da performance fattive, ostile verso l’imprenditoria e generalmente illetterata rispetto alla moderna economia globale e alle sue declinazioni sociali. Di conseguenza la struttura sociale non poteva comprendere e supportare un ordine basato sugli scambi e sull’imparzialità. Il terzo ed ultimo fattore per cui le riforme furono limitate nel loro successo consistette nel fatto che alcuni gruppi di potere miravano ad un’inefficienza sociale per massimizzare un ritorno personale. E qui le sovrapposizioni con l’Italia si sprecano.

In questo contesto la cooptazione “meritocratica” e non, fu uno degli strumenti principe per l’implementazione delle riforme. Come abbiamo visto, ebbe risultati alterni ma fu indispensabile per indurre un cambiamento. Fu utilizzata chirurgicamente a seguito di un’attenta analisi dei bilanciamenti di poteri e interessi dei gruppi economici e politici, al fine di generare una strategia centrale che permettesse di schierare dei gruppi contro degli altri e ridurre le opposizioni in una perfetta esecuzione machiavellica della massima secondo al quale “Gli uomini vanno trattati con dolcezza o annientati”. Sostanzialmente si è trattato sia di trasformare le parti interessate da opponenti a supporters offrendo qualcosa in cambio sia, nella maggior parte, di dare spazio operativo a persone capaci. È da notare che, tralasciando qualsiasi giudizio di capacità ma ribadendo l’importanza storica del processo in esame, Vladimir Putin fu incluso nel sistema politico russo in questo periodo per cooptazione diretta da parte di Yeltsin.

Un esempio italiano del sistema attualmente in essere potrebbe essere la bozza di decreto-legge recentemente presentata che propone la ricapitalizzazione di Stato per le imprese con partecipazione (dello Stato) ai consigli di amministrazione. Sostanzialmente si tratterebbe di un commissario politico in chiave moderna che vedrebbe 15-30 mila nuove nomine da effettuare.

Senza ulteriori riferimenti espliciti, ma rifacendosi sempre allo stato attuale delle cose, balzano agli occhi anche recenti esempi di “cooptazione fidelizzante”, rivelata da alcuni moti politici giovanili che, a lato di una bellissima volontà di servizio civico e politico, manifestano anche un processo in cui conta soltanto la mera lealtà del cooptato verso il cooptante. A latere, viene sfortunatamente riportato da Funiciello in “Come ringiovanire il vertice del Pd e vivere felici” che lo stesso processo si è insinuato da molti anni in maniera stabile anche nella politica del centro sinistra e che viene ben rappresentato da parte dell’attuale dirigenza. La conseguenza drammatica di tutto ciò, citando Marattin, è che i giovani cooptati fanno blocco con i padrini per ostacolare riforme strutturali. Tralasciando criteri ideali o ideologici, è desolante osservare che una ormai storica e sempre più smagrita dirigenza estremamente capace frutto dei criteri di selezione “berlingueriani” abbia mutato così profondamente la metodologia di selezione.

I punti di rischio di una cooptazione di tipo meritocratico sono riportati in studi sul sistema sanitario inglese, dove si è visto che la partecipazione di “professionisti” a strutture di tipo sistemico, senza che venga riformata la visione stessa del sistema, nel tempo ha diminuito la loro autonomia e la capacità di produrre cambiamento mentre i burocrati si sono nel tempo rinominati manager e hanno sostanzialmente ripreso il controllo sui professionisti.

Appare chiaro che, data la situazione attuale del paese, l’uso della cooptazione avviene spesso in maniera aberrante e diretta al mantenimento di parti interessate. Queste non sembrano altresì desiderose di un cambiamento al fine di un maggior benessere della popolazione. Le recenti spinte populiste e sovraniste hanno sostanzialmente fallito nel loro tentativo o adeguandosi alle logiche del sistema o perdendo consenso. Riferendosi a precedenti storici, non risulta che da tale approccio sistemico si possa pensare ad un cambiamento in positivo per la comunità. Appare altresì chiaro che un cambiamento, sebbene difficile, è possibile. Intere librerie e decenni di storia affermano che il meccanismo di domanda-offerta e l’iniziativa individuale rispetto ad una gerarchia centralizzata tendenzialmente offrirebbero una maggiore efficienza, una crescita più rapida e più libertà individuali. Per fare sì che ciò avvenga, bisogna creare una forte coalizione politica di ampie vedute che si serva di una cooptazione meritocratica come quella immaginata da Gramsci. Bisogna inoltre dotarsi di strumenti di verifica democratica cui vengano sottoposti i cooptati.

La scelta di una leadership delegante nel contesto attuale appare pericolosa seppur a tratti comprensibile, poiché si traduce in una mancanza di controllo sull’efficacia delle azioni messe in atto dai cooptati all’interno di un sistema che tende a mantenere se stesso. In un ambiente instabile è altresì vero che delegare permetterebbe al governo di “addossare le colpe” ai cooptati in casi di insuccesso delle azioni intraprese. Ciononostante, abbiamo visto come la libertà individuale è un criterio necessario per la crescita e il cambiamento. In questo senso una leadership delegante è la forma più ovvia per garantire questo criterio. Ci si augura che venga associata ad un processo di cooptazione basato sui meriti e che sia sottoposto a strumenti democratici di controllo dei risultati fattivi.

Alberto Dolci

Alberto Dolci

Mi chiamo Alberto, ho 35 anni e ho iniziato il mio percorso di studi universitario all’Università Cattolica di Milano. Terminata la laurea magistrale, nel 2010 mi trasferisco in Regno Unito per...

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