L’estate è tornata, portandosi dietro il suo consolidato insieme di routine. Il telegiornale raccomanda di rimanere idratati, le serrande delle case restano abbassate e nei dehor le persone si lamentano del caldo sventolandosi con oggetti di fortuna. Insieme a condizionatori e ventilatori, si riaccende il dibattito sul cambiamento climatico e sulle sue conseguenze.

L’accordo disatteso

Tra quelle più gravi, le Nazioni Unite sottolineano l’aumento senza precedenti delle temperature, la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento degli oceani. E ancora la perdita di specie, l’insufficienza di cibo, i disastri naturali e la povertà. Questo quadro devastante è ormai ben noto. Con l’Accordo di Parigi del 2015 i governi di tutto il mondo si sono impegnati a contenere l’innalzamento delle temperature a 1.5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Obiettivo il cui mancato raggiungimento comprometterebbe la sopravvivenza della specie umana sul pianeta.

Le emissioni di gas serra dovute alle attività umane, la principale causa del surriscaldamento globale secondo il prestigioso IPCC, continuano ad aumentare irreversibilmente. In questo scenario non propriamente ottimistico, molte delle soluzioni proposte ruotano attorno a due macro-temi. Il primo riguarda quelle che potremmo definire le “soluzioni di mercato” all’emergenza climatica, ovvero la compravendita delle emissioni. Il secondo è quello legato alla riduzione dei consumi individuali, il cosiddetto consumo etico o consapevole.

Le “soluzioni di mercato” all’emergenza climatica

Per semplificare, le “soluzioni di mercato” sono basate sul presupposto teorico che si possa attribuire un prezzo all’inquinamento. Un esempio emblematico in questo senso è quello delle Nature-based solutions (NBS). Definite come la “soluzione dimenticata” all’emergenza climatica, le NBS si concretizzano nella riforestazione e nella creazione di Aree Protette. E durante la COP26 sono diventate l’elemento cardine su cui giocare le politiche ambientali.

Queste soluzioni suonano accattivanti perché aggirano una reale riduzione delle emissioni, inserendosi nel contesto commerciale della compensazione delle emissioni di CO2. L’implicazione è che un’entità produttiva altamente inquinante potrà continuare a rilasciare la medesima quantità di CO2 a condizione di piantare un numero di alberi sufficiente ad assorbirne la stessa quantità, uno scambio che avviene attraverso la creazione di crediti di carbonio rilasciati all’interno del mercato finanziario.

Quando i governi parlano di “emissioni zero” si riferiscono a questo modello. Non azzerare, bensì compensare le emissioni, ammesso e non concesso – data la sostanziale mancanza di evidenze scientifiche – che l’equazione funzioni davvero. Non a caso le multinazionali più inquinanti sono tra le maggiori sostenitrici di questo approccio all’emergenza climatica, che garantisce inoltre margini di guadagno non indifferenti.

Il consumo consapevole

Comprare cibi biologici, riciclare gli oggetti, ridurre gli imballaggi. Il consumo consapevole parte dal presupposto che si possa utilizzare il proprio potere d’acquisto per influenzare positivamente le politiche pubbliche e private rispetto alla tutela dell’ambiente e del lavoro. L’idea è stata ampiamente accolta dalle istituzioni politiche e negli ultimi anni il paradigma del consumo etico è diventato dominante anche nel discorso pubblico, apparentemente conciliando la necessità di crescita economica delle aziende con la sostenibilità.

Ma con che grado di certezza possiamo dimostrare che uno stile di vita “sostenibile” pesi abbastanza sulla bilancia del cambiamento climatico? Porsi questa domanda non significa sostenere che le nostre scelte individuali non abbiano un impatto, o che non sia doveroso cambiare radicalmente i nostri stili di vita. La produzione di un kg di carne bovina consuma la stessa quantità di acqua che serve per produrre 1 kg di pasta, 1 kg di riso, 1 kg di verdure, 1 kg di frutta e 1 kg di legumi, a cui avanzano ancora 4.157 litri d’acqua.

Il punto è che la sostenibilità è un concetto estremamente complesso dal punto di vista pratico. Per poter valutare l’effettivo impatto ambientale di un prodotto bisogna tenere conto del Life Cycle Assessment. Ovvero di tutte le fasi che portano al prodotto finale, dall’estrazione delle materie prime al suo smantellamento. In altre parole, per quanto una borraccia possa sembrare una scelta ecologica, non è detto che il modo in cui viene prodotta sia effettivamente sostenibile.

Non siamo tutti uguali

Va poi sottolineato un altro aspetto. Siamo lontani dall’ottenere un cambiamento radicale grazie alle nostre scelte di consumo. Dati alla mano 100 entità produttive, tra private e statali, sono responsabili del 71% delle emissioni globali di gas serra, le prime 25 del 51%. È quello che emerge dal Carbon Majors Report del CDP. Alla luce di questo, presentare il consumo consapevole come lo strumento più efficace per contrastare il cambiamento climatico diventa più che altro un modo di spostare sull’individuo la responsabilità morale di un problema collettivo. Nascondendo quindi l’immobilismo politico di una classe dirigente che continua a rimandare per non scontentare nessuno.

Il 10% più ricco della popolazione globale produce il 52% delle emissioni

Guardando alle emissioni legate al consumo individuale, vale la pena sottolineare qualche ulteriore dato. Sembrerà scontato ribadirlo, ma non siamo tutti uguali. Il report Oxfam del 2020 sottolinea che il 10% più ricco della popolazione globale produce circa il 52% delle emissioni legate ai consumi, 100 volte tanto rispetto al 10% più povero. Inoltre, il 50% più povero non solo emette appena il 7% delle emissioni globali, ma è anche il gruppo su cui il cambiamento climatico ha l’impatto più devastante.

Le disuguaglianze agiscono da moltiplicatore degli effetti sia all’interno dei paesi che tra paesi diversi. Per fare un esempio, negli USA nei quartieri “redlined” le temperature sono in media di 7°C più alte rispetto agli altri quartieri della stessa città. Dal punto di vista mondiale, il 50% più povero risiede prevalentemente in paesi vulnerabili ad alto rischio di inondazioni e siccità. Invece oltre la metà delle emissioni del 10% più ricco è prodotta da cittadini residenti in Nord America e Europa.

Etica o privilegio?

Tutti questi dati sottolineano che responsabilità e conseguenze non sono equamente distribuite, così come gli strumenti materiali e simbolici per affrontare l’emergenza climatica. Vale quindi la pena chiedersi quanto possa essere fuorviante e pericolosa la logica per cui la responsabilità di salvare il pianeta sia nelle mani, o meglio nei portafogli, di tutti gli individui.
Oggi, mentre gli impatti devastanti delle scelte delle economie più ricche colpiscono i paesi e le persone più povere, il Nord Globale propone di mangiare biologico e comprare una borraccia. Ma affrontare l’emergenza climatica implica mettere in atto cambiamenti radicali e politiche pubbliche non accomodanti. Non può essere pensata come una questione di mercato a cui dare un prezzo, né tantomeno può essere affrontata da una prospettiva centrata sul consumo individuale.

Conservare lo status quo travestendolo di verde non è sufficiente, perché fare scelte sostenibili è sicuramente doveroso, ma accontentarsi di questo a fronte dello scenario contemporaneo serve a poco più che ad avere la coscienza pulita. Se non ne teniamo conto, l’idea di consumo consapevole diventa una questione di privilegio più che di etica.

Virginia Tallone

Virginia Tallone

Cuneese di origine e bolognese d'adozione, è laureata in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali. Iniziando come autodidatta nel mondo dell'informazione indipendente dal basso, frequenta la magistrale...

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *