Podhum (Piedicolle in italiano) è oggi un piccolo paese della Croazia, frazione del Comune di Jelenie, a circa 10 km da Fiume, e conta circa 14.000 abitanti. Nel 1942 erano circa 1.000 e faceva parte della Provincia del Carnaro (capoluogo Fiume) istituita dal governo fascista nel 1941 subito dopo l’occupazione della Jugoslavia nel corso della Seconda guerra mondiale. Fu inclusa nei Territori annessi del Fiumano e della Kupa e divenne, dopo l’incorporazione del territorio del Gorki-Kotar, la maggiore fra quelle istituite dagli italiani in Jugoslavia.

L’Italia – entrata in guerra il 10 giugno 1940 a fianco della Germania in ossequio al “Patto di acciaio” firmato nel maggio dell’anno precedente dai Ministri degli esteri Ciano e Ribbentropp – aveva attaccato la Jugoslavia l’11 aprile 1941, penetrando nel suo territorio dalla Venezia Giulia, dalla Venezia Giulia e da Zara con 7 Divisioni della Seconda Armata del gen. Vittorio Ambrosio, e da sud dall’Albania (già annessa all’Italia nell’aprile 1939) con 4 Divisioni della Nona Armata del gen. Alessandro Pirzio Biroli (in totale 400.000 uomini) occupando Lubiana il 12 aprile, Spalato il 15 e Ragusa e Mostar il 17.

La Wermacht tedesca aveva invaso la Jugoslavia con la Seconda Armata del gen. Maximilian von Weichs e la Dodicesima del Fed.mllo Wilhelm von List supportate da truppe alleate ungheresi e bulgare, e aveva occupato Zagabria il 10 aprile e Belgrado il 12. La cosiddetta “2^ Campagna dei Balcani” ebbe rapidamente termine con la capitolazione dell’esercito jugoslavo del gen. Danilo Kallatovic e la fuga di Re Pietro II in Grecia (e poi in Egitto) il 17 aprile.

Il territorio dell’ex regno di Jugoslavia venne spartito tra gli Stati vincitori del Trattato di Vienna del 22 aprile e l’Italia ottenne la parte sud-occidentale della Slovenia (Provincia di Lubiana), quella nord-occidentale della Banovina in Croazia (Provincia del Carnaro – Fiume), quella settentrionale della Dalmazia e la zona delle Bocche di Cattaro (Governatorato della Dalmazia), il protettorato sul Montenegro e l’annessione del Kossovo all’Albania.

Da quel momento la politica nazista e fascista verso quelle terre occupate fu tesa alla “assimilazione” e alla “snazionalizzazione” delle popolazioni, imponendo loro leggi e norme altamente restrittive e coercitive e deportando dai villaggi la maggioranza degli abitanti per consentirne con la forza l’occupazione da parte dei propri connazionali.

Per contenere la gran massa dei deportati vennero istituiti centinaia di Campi di concentramento in Jugoslavia (Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Melada, Mamula, Prevlaka, Zlarino, Janesovac, Sajmiste e nell’isola di Arbe) e in Italia (Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Casoli, Agnone, Colfiorito di Foligno, Renicci di Anghiari, Fraschette di Alatri) nei quali vennero rinchiusi complessivamente circa 500.000 individui, dei quali oltre 115.000 morirono per stenti, malattie, fucilazioni, freddo, sevizie (4.500 su 16.000 prigionieri nel solo “Kampor” di Arbe).

In seguito a tali deportazioni coloro che erano scampati iniziarono a riunirsi in gruppi di difesa e resistenza agli occupanti nazifascisti e, nel marzo 1941, il P.K.J. (Partito Comunista jugoslavo) creò il Fronte di Liberazione sloveno (O.F.S.N. – Osvobodilna Fronta Slovenskega Naroda) che iniziò ad assalire i militari tedeschi ed italiani in imboscate, colpi di mano, attentati e sabotaggi, infliggendo loro numerose perdite di uomini. La reazione dei tedeschi fu rapida e spietata. Rastrellamenti, confische di terreni, saccheggi, decimazioni, stupri, esecuzioni di massa, distruzione di interi villaggi, deportazioni ebbero inizio dall’aprile 1941: sotto il comando del gen. Franz Bohme  e del SS-Gruppenfuehrer Harald Turner (inviati in Jiugoslavia a scopo repressivo) con le Operazioni “Uzice” (settembre) a mala Mitrovna e Krupani e “Mihailovici” (dicembre) a Kraijevo, Kragajevac e Kralijevskoe Vode, vennero uccisi 25.000 civili e 60.000 furono deportati e rinchiusi nei vari Campi di concentramento, ove la loro mortalità raggiunse il 25%.

Nel Campo di Sajmiste vennero inviati 10.000 ebrei, poi tutti uccisi con l’impiego di un gaswagen (autocarro speciale i cui gas di scarico erano convogliati con un tubo nel cassone posteriore ermeticamente chiuso ove erano stipati a gruppi i prigionieri), sul tipo di quelli usati per primo da Stalin nelle grandi purghe del 1937.

Gli italiani non furono da meno: le truppe dislocate in Jugoslavia dall’11 aprile al comando del gen. Mario Roatta, Capo Stato Maggiore Esercito in Jugoslavia, contavano su 650.000 uomini suddivisi in due Armate, la Seconda del gen. Vittorio Ambrosio, dislocata in Slovenia e Croazia (XI Corpo di Armata gen. Lorenzo Dalmazzo, XVIII Corpo d’Armata gen. Quirino Armellini) e la Nona del gen. Alessandro Pirzio Biroli, impegnata in Kossovo e Montenegro (XIV Corpo d’Armata gen. Emilio Giglioli, XVII Corpo d’Armata gen. Ezio Rosi). L’amministrazione civile dei territori occupati era alle dipendenze del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini e del Prefetto della Provincia del Carnaro Temistocle Testa.

Dall’aprile 1941 al settembre 1943 gli italiani devastarono, distrussero e compirono massacri in oltre 250 villaggi (Bjelcke, Krusevice, Brunovic, Repaj, Jabuka, Cajnice, Causevici, Crljenica, Brnelici, Zoretici, Sasovici, Lastra, Rubezi, Morinje Dolovi, Stub icki, Milasi, Trnovici, Kukuljani, Podkilavac, Cernik, Kameno, Mavrinci, Spodnje Bitinje, Gornje Bitinje, Kilovice, Ratecevo, Cajnice, Cettigne, Ustije, Liubotinja, ecc.) fucilando oltre 200.000 civili e 26.500 partigiani, deportando circa 100.000 persone nei vari Campi di concentramento (dove ne morirono almeno 12.000) e distruggendo più di 400 villaggi.

Ad esempio, nella sola provincia del Carnaro, secondo le disposizioni del gen. Robotti che (aprile 1941) aveva raccomandato ai suoi soldati di “ammazzare più civili perché sinora non si è fatto abbastanza”, furono fucilati 1.500 civili, 2.500 partigiani e altri 20.000 civili vennero deportati, dati alle fiamme 104 villaggi. In quel contesto il gen. Roatta aveva anche chiesto a Roma, nel novembre 1942, l’autorizzazione a far uso di gas asfissianti sui ribelli jugoslavi (così come nel 1936 in Etiopia dal gen. Badoglio), ma il permesso non fu accordato.

Di questi massacri italiani quello emblematico avvenne a Podhum il 12 luglio 1942, assurto a simbolo della ferocia e della crudeltà delle nostre truppe che si autocelebravano come “brava gente”, ma che erano definite dagli jugoslavi come “palikuci” (bruciacase).

L’inizio delle operazioni nella zona di Podhum presero corpo l’8 luglio nel corso della più vasta operazione italo-tedesca “Risnjak” (antiguerriglia) tesa all’annientamento delle linee di sostentamento dei partigiani dello O.F.S.N. agendo contro i loro famigliari e le loro case. L’operazione rientrava in quanto stabilito il 1° marzo 1942 dal gen. Roatta (Circolare 3 C) che fissava le norme per la repressione della resistenza nemica, basate su principi di assoluta ferocia (“operare non nel senso di dente per dente, ma di testa per dente”) su indicazione del Duce (“mettere tutto a ferro e fuoco, dimostrando la determinazione dei soldati italiani”). Sulla scorta di queste direttive, il Prefetto della Provincia del Carnaro Temistocle Testa (noto come il “boia del Fiumano”) ordinò ai maggiori dell’Esercito Armando Giorleo e Mario Rampioni di effettuare una azione di “dura punizione” sul villaggio di Podhum per vendicare l’uccisione di 16 militari italiani avvenuta nella zona nei giorni precedenti ad opera dei ribelli jugoslavi. Un’altra fonte riferisce che il massacro sarebbe stato ordinato per vendicare l’uccisione avvenuta a Podhum nel giugno dello stesso anno di due insegnanti italiani fascisti (Giovanni, seniore della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, e Francesca Renzi) ad opera dei partigiani in quanto i due coniugi erano indicati come spie dei servizi segreti italiani e soprattutto come vessatori degli alunni slavi loro sottoposti.

Alle ore 8del 12 luglio, domenica, 250 militari appartenenti al XI Corpo d’Armata del gen. Robotti (ai quali si erano uniti elementi del 2° battaglione Squadristi emiliani, squadristi fiumani, cetnici e drappelli di carabinieri) con 5 carri armati entrarono, provenienti dalle sovrastanti alture di Kikovica ove erano confluite dal giorno 8, nel paese di Podhum e vi bloccarono tutta la popolazione: nel corso del successivo rastrellamento casa per casa, vennero catturati tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 individui) di cui 108 (alcuni erano riusciti a scappare) furono subito condotti a una vicina cava e, in un avvallamento ai suoi piedi, vennero immediatamente uccisi con raffiche di mitragliatrici, e i loro corpi furono gettati nella cava.

Il paese fu razziato (vennero razziati oltre 2.500 capi di bestiame grosso – buoi, mucche, maiali, cavalli, pecore – e 1.300 di bestiame piccolo – galline, conigli, oche -) 370 case e altri 124 edifici furono incendiati con l’impiego di lanciafiamme, e tutti i restanti abitanti (208 vecchi, 269 donne e 412 bambini componenti 185 famiglie) vennero caricati su alcuni autocarri sopraggiunti allo scopo e tutti inviati a Fiume. Di qui parte fu mandata, per nave, al Campo “Kampor” dell’isola di Arbe e parte, per ferrovia, ai campi di concentramento di Gonars in Friuli e delle Fraschette di Alatri in Italia. Esauritisi gli incendi, di Podhum non rimaneva più nulla.

Oggi, nel paese ricostruito di Podhum, si trovano, a ricordo della strage, un Parco delle Rimembranze, dedicato al santo Maximilian Kolbe, martire polacco fatto morire di fame dai tedeschi in una cella del Campo di sterminio di Auschwitz nel 1941. Esso è circondato da un muro che riporta, incisi su targhe di bronzo, i nomi dei 108 fucilati, nomi ripetuti anche sui marmi delle loro tombe situate nel giardino del Parco, al centro del quale si erge un altissimo monumento a forma di fiore e su ciascuno dei suoi 108 petali è ripetuto il nome di un caduto. La strage viene ricordata pubblicamente con una cerimonia nazionale il 12 luglio di ogni anno.

Al termine della Seconda guerra mondiale il Governo jugoslavo richiese a quello italiano la consegna di 750 persone (fra le quali i gen. Roatta e Robotti e il maggiore Giorleo) che avevano fatto parte del contingente di occupazione italiano in Jugoslavia negli anni 1941/’43 per processarli con l’accusa di crimini di guerra. In ossequio all’allora imperante politica dei Paesi occidentali di distensione verso quelli “non allineati”, la loro estradizione non fu mai concessa, nonostante le ripetute richieste. In Italia, grazie alla infausta amnistia Togliatti (giugno 1946) e alla successiva “Azara” (settembre 1953) nessuno di questi 750 (né altri) fu mai processato.

A ricordo di questa macchia indelebile della nostra Storia militare, Ivan Kovacic scrisse il libro “La tragedia di Podhum”. Numerosi gli articoli di Giacomo Scotti, Amleto Ballarini, Giorgio Rochat, Davide Redogno, Roko Reljac e Eric Gobetti nel corso degli anni.

Gustavo Ottolenghi

 

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