Nell’infuocato dibattito sulle ragioni e sui torti delle varie posizioni emerse a seguito dello scontro giuridico e verbale tra il Comandante e la Comandante della Sea-Watch 3, ci ha sorpreso la pubblicazione su La Stampa del pensiero di Domenico Quirico, l’inviato speciale del quotidiano torinese che nell’ultimo decennio ha seguito in prima linea tutta la tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo, pagando anche un prezzo molto alto in termini di sicurezza personale quando fu sequestrato da una banda di terroristi e rilasciato dopo una lunga e sofferente detenzione.

Di fronte al comportamento tenuto da Carola Rakete, fino al suo arresto al momento dello sbarco a Lampedusa, Quirico modifica il suo pensiero. Il suo sentire sull’argomento.

Assume un atteggiamento critico nei confronti della Comandante, argomentando con lucidità, certamente più o meno condivisibile, il perché della sua apparente, intervenuta incoerenza: “Dico la verità: dopo 8 anni passati a raccontare i migranti – ha scritto Quirico nei giorni scorsi – a camminare insieme, a spartire tutto con il primo di loro che piangesse lacrime nel deserto o tra le onde del mare, non provo simpatia per Carola. Non credo ci sia grandezza, neppure tragica, nell’errore. C’è solo l’errore e il danno per la causa per cui ci si batte. Non voglio indignarmi, accusare: la Buona Causa resta quella e non la rinnego, gli xenofobi, sabbia arida, alghe putride, non mi avranno. Ma non mi schiero con la giovane attivista tedesca, il suo sbandierato umanesimo a tempo pieno, il narcisismo fanatico della sua misericordia. Non salgo sulla nave”.

Quirico va oltre e spiega che le condotte di cosiddetta disobbedienza civile non fanno altro che aiutare l’avversario, colui che spinge per una politica dei “porti chiusi”.

Attenta, vorrei avvertirla, stai redigendo, con il micidiale fanatismo delle buone intenzioni, il manifesto propagandistico perfetto per i razzisti”.

L’inviato speciale de La Stampa si pone quindi un interrogativo che può essere utile a tutti noi che assistiamo sgomenti a cosa è accaduto e sta accadendo sotto i nostri occhi nel Mediterraneo: “Le instillo un dubbio: oggi essere virtuosamente sovversivi non è violare la Legge, ma obbligare chi è al potere a rispettarla… E’ giunto il momento di riconoscere che il peccato originale è stato credere che si potesse vincere la battaglia sulla Migrazione utilizzando l’arma della pietà, della empatia verso chi soffre. E’ stato anche il mio errore. La compassione non dimostra nulla… Non credo più all’efficacia di queste reazioni di natura animale… Il capitano della Sea-Watch è solo l’ultimo di una schiera di persone di buona volontà ma cieche che ha consegnato i migranti a Salvini, legati mani e piedi con i lacci della loro pietà. Perché anche loro cercavano nel migrante il tornaconto, l’esito, il successo”.

Quirico propone una prospettiva diversa rispetto all’emergenza dei migranti. Dopo anni e anni passati battendosi in prima persona per la loro salvezza, oggi rivede la sua posizione e propone una tesi suggestiva, condivisibile o meno sta alla nostra sensibilità personale, alle nostre coscienze: “La battaglia con gli altri, i negatori e gli egoisti dei diritti – ha scritto Quirico – non si combatte sull’essere più buoni. Ma con una azione maieutica, pedagogica, paziente, nel denunciare ed esigere la correzione delle violazioni che loro commettono: i decreti sicurezza che colano macroscopiche deviazioni illiberali e incostituzionali, redatti da frettolosi azzeccagarbugli sovranisti; lo scandalo, giuridico, di appalti repressivi affidati a stati in mano a bande criminali come la Libia; le violazioni fragranti del diritto internazionale commesse nel riconsegnare i rimpatriati a Stati canaglia; i fraudolenti ritocchi di un mostruoso diritto etnico che vale solo per gli italiani”.

Quirico conclude il suo ragionamento con una provocazione che riguarda proprio i giuristi, i presunti esperti del diritto: “Ci volevano giuristi attenti e implacabili, non passionarie e commozioni che sono fuoco fatuo, sdegno o fiaba. Era quella la strada, procedere secondo l’applicazione della legge più alta, che è diritto positivo non fatua retorica: tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Conosciamo l’album della nostra storia: è un codice di leggi, sfogliamolo”.

Come dicevamo all’inizio di queste riflessioni, ci ha colpito la metamorfosi che ha attraversato il pensiero di Domenico Quirico, uno dei primi alfieri di una gestione del fenomeno migratorio civile e inclusiva.

Lo diciamo oggi perché diventa davvero difficile riuscire ad analizzare le varie posizioni sul tavolo su questo tema drammatico che contaminerà le esistenze di tutti gli esseri umani nei prossimi decenni.

Come reagire di fronte all’appello degli avvocati torinesi che abbiamo commentato nei giorni scorsi? E come leggere questa nuova prospettazione del tema che ha indotto Quirico, un antesignano della politica dell’accoglienza dei migranti, a fare un passo indietro o forse di fianco rispetto alla sua filosofia attuata nell’ultimo decennio sul marciapiede delle vittime di questo tragico fenomeno che sta caratterizzando il III millennio?

Ribadiamo quanto abbiamo già scritto di recente e cioè che bisogna oggi, a maggior ragione, analizzare i fatti che accadono sotto i nostri occhi e leggere i vari commenti, più o meno violenti che si scatenano, sospendendo l’istinto e cercando di far prevalere la ragione.

Quella ragione che dovrebbe essersi formata sui valori della nostra Costituzione e, quindi, sul rispetto “dell’altro” a prescindere dal colore della sua pelle, dalla religione professata, dal paese da cui provenga. Un rispetto che non deve significare però un’accoglienza generalizzata e velleitaria, tale da mettere in crisi la sicurezza di coloro che generosamente accolgono le vittime del momento.

Solo così pensiamo si possano arginare gli effetti di una propaganda che gioverebbe soltanto alle tesi dei fondamentalisti rispetto a un problema che richiede umanità, professionalità e spirito solidale.

Sentiamo nell’aria lo spirito di qualcuno che ci vorrebbe far vivere questa problematica come una continua emergenza: “Oggi non c’è un’emergenza – ha scritto l’ex Ministro degli Interni Marco Minniti – e tuttavia ci si comporta come se fossimo davanti ad una drammatica invasione. Detto ciò sulla vicenda della Sea-Watch, le responsabilità non sono soltanto del governo italiano. Se l’Italia si è dimostrata piccolissima, l’Europa ha dimostrato di essere una piccola Europa… In tre settimane una nave con a bordo 42 persone – non 4200 e neppure 400 – è diventato il pretesto per tenere un paese sul filo del rasoio. In un paese normale una vicenda come questa viene risolta in 5 minuti, perché viene inquadrata dentro una strategia complessiva”.

Già, probabilmente il vero tema centrale è quello di adottare una strategia complessiva adeguata: e su questo punto sorgono davvero delle differenze di opinioni fra quanto sta portando avanti il Viminale e quanto auspicherebbero molti italiani.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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