La riflessione più diffusa su questo periodo storico, tra le persone di opinione progressista, è che sia un momento buio e pericoloso. Vero.

Ciò che invece manca è un’analisi delle ragioni in cui ciascuno abbia la voglia e il coraggio di dire: siamo arrivati qui perché anche io ho sbagliato. Sarebbe bello che iniziasse una straordinaria stagione di responsabili, volontarie, libere ammissioni di errore: la stagione dell’onestà intellettuale, qualcosa di inedito n una nazione di trasformisti che negano di essere stati ciò che erano sino al momento prima. E invece, quanto sarebbero opportune dieci, cento, mille prese di consapevolezza e assunzioni di responsabilità da parte di chi non ha mai deciso alcunché ma ha sostenuto idee che si sono rivelate errate. È da questa premessa che occorre partire: quante sciocchezze credute e dette.

Tra le molte autocritiche necessarie per comprendere per quali ragioni ci troviamo in un momento storico tanto difficile, chi crede nella società aperta e in una visione liberaldemocratica deve domandarsi se la situazione attuale non derivi (anche) dalla propria errata percezione del livello di sviluppo della società italiana e delle reali possibilità di una disintermediazione del processo politico.
Negli ultimi anni nel mondo progressista vi sono stati alcuni elementi di forte discontinuità con la storia delle forze democratiche nel dopoguerra. Tra questi figura la rincorsa alla delegittimazione dei corpi intermedi, tanto del sindacato e delle organizzazione datoriali, quanto della forma dei partiti e del loro finanziamento. Un processo che, in generale, ha investito l’articolazione della società, le forme della rappresentanza e della costruzione della decisione politica.

Un percorso che inizia quaranta anni fa.

Si tratta di un percorso che ha origini lontane. In primo luogo è la crisi stessa dei partiti di massa nella loro capacità di dialogo con la società italiana, che inizia ormai quarant’anni fa, e che evolve (involve) sino a determinare il passaggio tra prima e seconda repubblica. Questa prima crisi dei partiti, nonostante gli sforzi successivi di cambiamento, non è mai terminata, e perdura ai giorni nostri.
Durante la seconda repubblica nel campo progressista si sono susseguiti tentativi di individuare nuove forme di organizzazione dei partiti – orizzontale, leggero, tematico, liquido, federale – e non di rado con elaborazioni teoriche interessanti, che però nella pratica si sono rivelate essere un paravento utilizzato dagli elementi peggiori del ceto politico per coprire cordate di potere dietro la parvenza di correnti di pensiero. La conseguenza è stata ogni volta l’acquisizione di un sempre maggiore potere nei partiti da parte di chi controlla pacchetti di tessere. Come in un circolo vizioso, ne è seguita l’autoesclusione da parte di un numero crescente di aderenti sinceri e disinteressati alle posizioni di sottopotere.

Nel frattempo la spettacolarizzazione del discorso politico ha portato a un ulteriore deterioramento della considerazione dei partiti presso la pubblica opinione e ha concesso spazi insperati, quanto a semplificazione del discorso e radicalizzazione dei toni, alle forze antisistema. A ciò si aggiungano malversazioni e scandali che hanno investito più partiti, che hanno dato un facile argomento per l’abolizione del finanziamento pubblico delle politica. Si ha così un quadro completo delle ragioni di crisi delle organizzazioni politiche.
Sul piano del sindacato e delle associazioni datoriali il discorso è più complesso, ma in parte collegato. Dalla fine degli anni ‘70 si è assistito a una progressiva perdita di capacità di rappresentanza, cui tuttavia è seguita una sempre maggiore rilevanza nel dialogo istituzionale, culminata con il periodo della concertazione a inizio anni ’90. Nel frattempo, la perdita di rappresentanza induceva il sindacato e le organizzazioni datoriali a ricercare una nuova vocazione nell’offerta di servizi, con maggiori iscritti attratti da tale funzione (per certi aspetti meritoria), tuttavia così drogando i livelli reali di rappresentatività.

In ogni caso, è con l’arrivo delle forze del centrosinistra al governo (1996) che inizia nel campo democratico un percorso di progressivo rifiuto della funzione dei corpi intermedi, del tutto nuovo nel mondo progressista italiano. I sindacati confederali, in particolare, sono sempre più bersaglio non soltanto di giuste critiche per il conservatorismo di certe posizioni, bensì di attacchi tesi alla delegittimazione della loro funzione. Si arriva così alla ricerca di un dialogo diretto tra leader politici ed elettorato che prescinde dalle forze sociali.
In tal modo in Italia nel campo democratico progressista nel giro di circa vent’anni (1996-2016, dal primo governo Prodi alla caduta del governo Renzi) si giunge a una rivisitazione radicale della funzione che quella vasta area, nelle sue molteplici componenti, tradizionalmente assegnava ai corpi intermedi. Da utile strumento di rappresentanza di interessi e opinioni, cooperanti, seppure nella dialettica e nella contrapposizione, al progresso civile e sociale del Paese, i corpi intermedi divengono elementi di impaccio alla mitizzata velocità della decisione. Si badi bene: giusta la critica nel merito per quanto in questi vent’anni i corpi intermedi si siano rivelati non all’altezza dei compiti, per quanto poco abbiano saputo offrire al Paese, in termini di produzione di idee e soluzioni. Tuttavia è innegabile che dalla critica nel merito – che peraltro dovrebbe riguardare l’intera classe dirigente del Paese – si sia passati a una più radicale delegittimazione, fiduciosi nella possibilità di fare a meno di forme strutturate di organizzazione sociale.

Il 22 marzo Sabino Cassese annotava sul Corriere della Sera: “Se gli anticorpi sono deboli, il sistema rischia di non reggere, ed allora sarà necessario cominciare a pensare agli organismi che possano far passare la nostra democrazia dall’infanzia alla maturità. Innanzitutto, occorrerebbe valorizzare quei corpi intermedi che la continua evocazione del popolo pare aver zittito, Essi hanno contributo al progresso della democrazia italiana e al suo pluralismo”.

Dopo vent’anni.

Ebbene, è qui che va situata l’autocritica auspicata in principio, l’errore di questi vent’anni, in vasta parte del campo progressista: pensare che la rivoluzione liberale dovesse necessariamente passare per una disarticolazione della società nelle sue forme di aggregazione, e che ciò garantisse la realizzazione di una società aperta in modo radicale e definitivo, senza più alcun controllo di gruppi sul libero convincimento dell’individuo. Tale opinione non faceva i conti con la realtà della società italiana, con i livelli di arretratezza culturale e di fragilità sociale di alcune sue componenti, con la sperequazione della spesa sociale in favore della previdenza più che dell’assistenza, con l’assenza dello Stato in vaste aree del Paese. Eccoli, gli anticorpi deboli che avrebbero dovuto avvertire dell’impossibilità di quanto si tentava di fare. Ecco perché il sistema ora rischia di non reggere.

La verità con cui dobbiamo fare i conti è che la disintermediazione ha prodotto unicamente maggiore fragilità e confusione, incapacità di svolgere in modo complesso il ragionamento politico-istituzionale, impossibilità di affrontare problemi articolati nel confronto democratico, producendo sempre maggiore sfiducia nella rappresentanza. Mentre i corpi intermedi, pur con i limiti sopra richiamati, contribuivano alla selezione della classe dirigente e al dialogo tra le componenti sociali, garantendo continuità al programma costituzionale, il nulla leaderistico odierno, invece, impone la discontinuità permanente, all’inseguimento del consenso di breve periodo. Discontinuità dopo discontinuità, non stupisce il fascino suscitato da parole sempre più eversive: a forza di esaltare una infinita soluzione di continuità, dove mai si potrebbe arrivare, infatti, se non alla discontinuità con la costituzione repubblicana?

Nicolò Ferraris

Nicolò Ferraris

Nato a Torino nel 1981 è avvocato penalista.

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