Un uomo innocente che assiste per caso a un omicidio della criminalità organizzata può difendersi solo allontanandosi dal posto in cui vive, anche per difendere la famiglia. Lo racconta Ernesto Berretti, sottufficiale della Guardia di Finanza che si è scoperta la vocazione dello scrittore, nel suo secondo romanzo, “La giostra dei pellicani”, edito da Watson.

Il malcapitato, in questo caso, è Angelo Nucella, capostazione di Burgio, in Sicilia, dove assiste, appunto, all’agguato dello sgradito candidato sindaco del paese, siamo nel 1946, trovando morte innocente anche la cognata di Angelo. Dodici anni dopo ritroviamo Angelo e la famiglia a Settecardi, sull’Aspromonte, “nuovo capostazione di uno scalo reso importante dai lavori in corso per la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria”.

Ma la famiglia non troverà pace. Innanzitutto, dentro se stesso, perché egli “vuole tranquillità per cancellare le paranoie che ancora lo assillano dall’uccisione della cognata Masina. Da quel giorno, la sensazione di essere visto da qualcuno gli ha cambiato la vita. Essere visto dagli assassini o da altre persone non avrebbe fatto la differenza perché sarebbe diventato in ogni caso il soggetto da segnalare o da imputare per scagionare qualcun altro. Così ogni sguardo, ogni parola, ogni gesto rivolto a lui, o chiunque della sua famiglia, aveva il peso della minaccia”, spiega benissimo l’autore cosa accade nell’animo di un testimone suo malgrado. Ciò malgrado, presto due suoi figli verranno coinvolti in un altro omicidio. Ormai sono saliti sulla giostra dei pellicani. E il romanzo, dal titolo significativo e al ritmo del noir, porta il lettore all’interno di questo mondo.

Berretti, è difficile o semplicemente impossibile scendere da questa giostra? Prima che allo scrittore, lo chiedo al sottufficiale della finanza.

Risponderò come un uomo che ama, dunque un potenziale “pellicano”: credo che l’amore sia ciò che unisce i miei personaggi a chi ne leggerà le vicende. Ci sono situazioni in cui amare qualcuno può rivelarsi una vera e propria condanna. Chi ama diventa fragile di fronte al ricatto posto in essere da gente senza scrupoli, senza anima, senza luce. Ho riflettuto molto a ogni stesura, alle conseguenti riletture, e sono giunto alla conclusione che, se si vuol restare incontaminati dal contatto con realtà feroci e torbide, esiste un solo modo per scendere dalla giostra: non salirci! I miei personaggi non hanno potuto evitarlo, e le conseguenze, come un’ondata di piena, hanno inondato le loro vite sommergendole sotto una coltre di acqua e fango senza distruggerle del tutto – protette com’erano dall’amore. E però questa sommersione colpisce anche le anime nere, condiziona e trasforma le vite dei malavitosi. In situazioni del genere, nessuno può aspettarsi un riscatto: dipende solo da quando e come passerà la piena.

Una nota sul tuo libro rivela che la storia che hai raccontato è vera, scoperta grazie a un incontro casuale con un clochard avvenuto oltre dieci anni fa. Cosa di questo incontro ti aveva tanto colpito da maturare tanto dentro di te fino a farne il tuo primo romanzo?

Ho preso spunto da quanto ho ascoltato dal clochard che, apparso dal nulla, è tornato nel nulla quando gli ho prospettato di scrivere un romanzo partendo dal suo racconto. La magia di quell’incontro, avvenuto con un amico divenuto anche testimone, i riferimenti storici e il piacere di approfondire con ricerche che mi hanno fatto scoprire realtà che disconoscevo del tutto, la voglia di dare voce a chi ha dovuto rendersi invisibile per vivere e per far vivere la propria famiglia, il gusto di far riflettere i lettori (ma prima, di riflettere io stesso) e far porre loro una domanda a cui sarà difficile dare una risposta: «E io cosa avrei fatto al posto suo?». Ecco, tutto ciò mi ha dato stimoli ed energie per non mollare il progetto e per portare alla luce le storie reali che fanno da contorno alla trama principale.

Cinque anni fa esordisti con il libro di testimonianza “Non ne sapevo niente”, Oltre edizioni. Era il racconto della tua esperienza, durata sette mesi, di “basco blu” della UEO nei Balcani nel 1995, in ordine all’embargo di armi alla Serbia, ma già denotava una padronanza stilistica che, devo dire, in questo “La giostra dei Pellicani” emerge con grande forza, con l’uso sapiente del dialetto (il siciliano e il calabrese) che dà ritmo e peculiarità alla pagina, tanto da chiedermi se lo scrittore Berretti è nato prima del suo arruolamento nella Guardia di Finanza o durante, e come? Meglio ancora: grazie a questo impiego o nonostante questo impiego?

A dire il vero da bambino sognavo di fare il fotoreporter. Ho scritto durante i corsi militari, poi ho collaborato con un giornale di arte e cultura – per il solo gusto di farlo –, e scrivo per il mio lavoro, in cui abbozzo per la mia gerarchia relazioni o soluzioni fruibili e snelle di circolari o normative a vantaggio dei colleghi. Scrivere per diletto mi porta a tramutare la fantasia in azioni, a trovare il vento giusto per spazzare via gli argomenti di lavoro dal mio tempo libero, a rendere dignità a storie sconosciute. Faccio parte degli “Autori Solidali” un collettivo nato sui social per unire i nostri racconti in raccolte da vendere e devolvere gli incassi in solidarietà. E poi, con l’associazione culturale Book Faces di Civitavecchia, organizziamo concorsi, rassegne e incontri letterari con scrittori di alto livello che offrono ispirazione e stimoli altissimi. Ma imprescindibile è la lettura: oltre al gusto elementare, è anche motivo di studio per individuare la propria voce e per trovare strade originali per raccontare qualcosa. E poi ancora corsi di scrittura creativa e confronto con altri autori. Tanto impegno. Dunque, la scrittura grazie “anche” al mio lavoro, ma non solo.

Quanto invece, in una storia come quella che racconti in “La giostra dei pellicani” ti ha aiutato il tuo essere siciliano, e non solo per la scrittura?

Più che un aiuto, l’essere catanese ha caricato i miei polmoni per un simbolico grido contro il cliché dell’omertà prerogativa esclusiva di noi meridionali. Tu, Diego, hai seguito la fase di editing del libro precedente e hai voluto mantenere forte il senso che si oppone ai pregiudizi: in quel caso il pregiudizio di tanti verso il popolo Rumeno, senza conoscerne la storia. Stavolta mi piace sfidare il luogo comune facendo porre al lettore quella semplice, drammatica domanda contestualizzandola alla vacua certezza della pena o all’altrettanto vacuo sistema di garanzie verso chi denuncia. Il mondo non ha bisogno di eroi, ha bisogno di sistemi capaci di far vivere senza paura. Solo dopo possiamo parlare concretamente di omertà e di coraggio.

É d’obbligo chiederti a questo punto se, dopo una maturazione così lunga di una storia estrema come quella che hai raccontato, c’è spazio in te per altre storie. E, nel caso, sullo stesso genere e tema?

Con questo libro ho capito che ho una predisposizione a narrare storie “vere”, che catturano me prima che i lettori. Mi pregio dello strillo di Salvatore Basile, scrittore e sceneggiatore di riconosciuta qualità, che ha definito “La giostra dei Pellicani” come «Un romanzo storico che si lascia contaminare dalla tradizione del giallo, del noir e della grande saga familiare, una storia che attraversa la nostra Storia». Ecco, in così poche parole ha riassunto alla perfezione: ci saranno altre storie (ho un’idea che non mi lascia, si tratta di una storia davvero complessa e impegnativa), ma, intanto, voglio concludere questa nel modo migliore. Posso anticipare che questi personaggi li troverete ancora. Dopo, chissà…

Diego Zandel

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