La manovra di bilancio è stata votata.

Un po’ di proteste per il poco tempo a disposizione per leggerla ma poi è passata.

In sintesi la legge di bilancio mette le basi per la riforma del fisco che dal 2022 comincia con la riduzione dell’Irpef e la cancellazione dell’Irap per professionisti e autonomi.

Sono stati stanziati 8 miliardi di euro per coprire tale riduzione di imponibile.

Il primo passo è la riduzione delle aliquote fiscali che passano da 5 a 4: 23% sui redditi fino a 15.000 euro; 25% sullo scaglione tra 15.000 e 28.000 euro; 35% tra 28.000 e 50.000 euro; 43% sui redditi da 50.000 euro in su.

Rimane confermato il bonus Renzi da 100 euro e vengono rimodulate le detrazioni fino a 15.000 euro di reddito.

La politica può ora concentrarsi interamente sulle elezioni presidenziali: mancano ormai solo più due settimane circa all’inizio delle votazioni fissate per il 24 di gennaio.

La legge di bilancio ha toccato però un nodo caldo, spinoso, controverso: la riforma fiscale.

Soltanto un mese fa, sulle prime proposte formulate dal governo, due delle tre sigle sindacali confederate hanno addirittura chiamato uno sciopero generale denunciando che a finanziare il nuovo deficit saranno sempre gli stessi, i lavoratori dipendenti, tassati alla fonte e impossibilitati quindi a qualsiasi “manovra” per ridurre o occultare il proprio reddito.

Affermazione antica non priva di una parte di verità.

Un’altra proposta oggetto di violente contestazioni, tali da far ritirare poi tale ipotesi, è stata l’addebito dei sussidi deliberati per calmierare l’aumento delle bollette energetiche soltanto ai contribuenti con oltre 75.000 euro di reddito.

Insomma, da un lato, la protesta contro una riforma fiscale che penalizza i soliti noti, i ceti più bassi, gli unici che non possono evadere, non solo per virtù, ma proprio per la tecnica di prelievo; dall’altro, la battaglia della destra, alla fine vincente in questo caso, contro una iniqua redistribuzione dei maggiori oneri derivanti dall’aumento della bolletta energetica soltanto a carico dei ricchi, cioè dei contribuenti da oltre 75.000 euro di imponibile annuo.

Per alcuni commentatori è stata la dimostrazione di una cultura di “redistribuzione della ricchezza al contrario”!

Quello che ci lascia molto perplessi di tutto questo dibattito, più o meno comprensibile, è un punto di natura culturale che dovrebbe costituire il presupposto di ogni ragionamento che tocca la fiscalità di un Paese.

Il nemico del fisco, dello Stato, della collettività, dei contribuenti onesti, non è, o meglio non dovrebbe essere, il ricco che guadagna di più (e che con il nostro sistema basato sulla progressività delle aliquote paga proporzionalmente di più di coloro che hanno un reddito inferiore) bensì l’evasore: quel nostro concittadino che non paga le imposte come dovrebbe ma fruisce ugualmente di tutto il sistema del welfare finanziato proprio dal gettito fiscale globale.

Qui risiede la più clamorosa e insopportabile iniquità del nostro sistema: non nella lotta tra contribuenti maggiori o minori che si lamentano vicendevolmente sull’aumento o diminuzione delle aliquote, a volte a carico degli uni, altre degli altri.

Il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) e il centro studi “Itinerari Previdenziali” hanno pubblicato proprio in questi giorni una analisi della situazione riferita ai redditi dichiarati dai cittadini italiani nel 2019: l’oggetto dell’indagine era proprio quello di capire chi paga veramente i servizi che tutti noi cittadini riceviamo.

La Sanità costa 115 miliardi l’anno – si legge nel documento del CNEL – che divisi per 59,8 milioni di cittadini italiani fa circa 1.930 euro a testa all’anno.

Le invalidità civili e di accompagnamento, gli assegni sociali, la maggiorazione sociale delle pensioni, il reddito di cittadinanza e in generale quello che va sotto il cappello dell’assistenza sociale, valgono 114,24  miliardi di euro, ossia 1.910 euro a testa.

L’Istruzione costa 62 miliardi, dunque 1.036,5 euro pro capite.

Per capire chi paga cosa, bisogna però considerare il numero dei contribuenti, non solo quello dei cittadini.

Bisogna fare riferimento a quei cittadini che le tasse le versano e che sono 41,5 milioni di italiani.

Sono loro che si fanno carico, in proporzione alla loro capacità reddituale, delle categorie esentate come i bambini, gli studenti, i disabili.

Di fatto si tratta di 2 contribuenti su 3 abitanti (con un rapporto che è di 1,4), che nel 2019 hanno versato complessivamente 172,5 miliardi di Irpef.

Il documento del CNEL ci permette di fotografare in modo chiarissimo la gravità della responsabilità degli evasori.

Colui che non paga le tasse, infatti, in base alla propria reale capacità, per le ragioni più strane e comunque ingiustificabili, continua a beneficiare di servizi come la sanità, l’assistenza sociale e l’istruzione (con le centinaia di miliardi di costo che abbiamo appena citato) senza aver contribuito a pagarli.

Milena Gabanelli ha recentemente calcolato che un ciclo di cure contro i tumori costa 90.000 euro, la terapia intensiva costa 2.000 euro al giorno, l’intervento di bypass coronarico costa 25.000 euro, ecc. ecc., sono tutti costi che la collettività dei contribuenti paga anche per coloro che evadono le tasse.

Ci aiuta a capire meglio il contesto normativo ma anche culturale nel quale viviamo, uno stimolante carteggio intervenuto in questi giorni nella rubrica curata da Michele Serra su l’Espresso.

Un lettore scriveva a Serra: “E’ possibile che la stragrande maggioranza della sinistra non abbia altre idee in campo fiscale se non lo slogan “Far pagare di più i ricchi” dove per ricco si intende qualsiasi lavoratore che dichiari più di 75.000 euro di reddito?La sinistra sa che un lavoratore con 75.000 euro di reddito versa 24.000 euro di Irpef e 7.000 euro di contributo pensionistici, al netto dei quali rimane un reddito effettivo mensile di 3.400 euro? Secondo Lei, caro Serra, una famiglia monoreddito a Milano con 3.400 euro mensili naviga nell’oro? Certo non sta male, ma non è ricca, a meno di patrimoni pregressi. Possibile che la sinistra non abbia ancora capito che uno Stato che da un lato non riesce o non vuole combattere l’evasione e dall’altro spende mediamente  male il denaro pubblico ha un unico modo per restituire un po’ di equità: astenersi dal chiedere un euro in più a chi già redistribuisce una parte rilevante del proprio reddito. E’ possibile che la sinistra non capisca che dare altri soldi ad uno Stato che non si impegna ad essere migliore è come dare vodka ad un alcolizzato che non vuole smettere di bere? E’ possibile che la sinistra non abbia  l’umiltà di fare di conto, di capire come funzionano gli scaglioni Irpef, di capire che cosa realmente non funziona nel nostro sistema di finanza pubblica?  In sintesi: quando potrò dire queste cose senza essere tacciato di essere di destra?

Ed ecco la risposta di  Michele Serra: “La sua è una difesa appassionata del ceto medio “trasparente” che dichiara quello che guadagna. Non credo affatto che sia una opinione di destra. Credo però che il prelievo fiscale per essere equo, debba per forza essere progressivo, con aliquote che aumentano in proporzione al reddito. E questo criterio, mi rendo conto, penalizza chi è già “visibile” al fisco e già contribuisce a finanziare il welfare. Il problema è sempre il solito: la vera sperequazione è quella tra i contribuenti “in chiaro” e l’enorme ricchezza criptata, invisibile, degli evasori fiscali. O di quelle grandi aziende, diciamo così apolidi, che lucrano miliardi in paesi nei quali pagano tasse ridicole, o non ne pagano affatto. Questa a me sembra la sola grande differenza percepibile, in campo fiscale, tra destra e sinistra. Cercare o non cercare di catturare la ricchezza irreperibile, combattere o non combattere l’evasione”.

Questo è il punto centrale!

Ormai l’implementazione e sofisticazione dei programmi informatici consentirebbe al fisco, banalmente attraverso l’incrocio della nostra dichiarazione dei redditi con le banche dati che registrano, ad esempio, la proprietà di auto, imbarcazioni, areoplani, di stanare presto e con precisione gli evasori; tra l’altro senza bisogno di ricorrere ai blitz mediatici della Guardia di Finanza che nuocciono all’immagine del nostro Paese.

Basterebbe lavorare in maniera lucida e professionale sulle nostre autocertificazioni dei redditi e incrociarle con le spese relative al nostro livello di vita.

Tornando alla legge di bilancio appena approvata, vale la pena riportare un passaggio della relazione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) che dice “Il triplice intervento sull’Irpef – riduzione da 5 a 4 scaglioni e taglio di 5 punti delle due aliquote centrali – fornisce un beneficio a tutti i contribuenti, eliminando importanti distorsioni”.

Già perché, come acutamente evidenziato da Alessandro De Nicola, per una corretta valutazione della riforma delle aliquote Irpef e sulla contestuale valutazione sull’equità dei nuovi scaglioni del sistema progressivo, non bisogna limitarsi al “numerino” della singola aliquota, ma bisogna considerare tutti gli sgravi possibili per i contribuenti legittimati a fruirne, che di solito rappresentano redditi medio-bassi.

Su questo tema che ha sempre affascinato tecnici, professionisti e intellettuali, suggeriamo la lettura di un libro di Rainer Zitelmann, storico e sociologo tedesco, intitolato “Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi!” (Pubblicato da IBI Libri, con il sottotitolo Come e perché condanniamo chi ha i soldi”).

Il saggio parla dei pregiudizi, del classismo alla rovescia, dell’invidia.

Combatte l’eterno errore per cui il guadagno di un soggetto corrisponde alla perdita uguale e simmetrica di qualcun altro.

Invece di stimolare i contribuenti che pagano le loro tasse a scontrarsi tra di loro su chi le paga di più o di meno, con prelievi corretti o esagerati (una guerra, insomma, tra onesti) lo Stato dovrebbe occuparsi di combattere l’evasione sul serio, recuperando risorse che permetterebbero una riduzione delle aliquote di tutti quelli che le imposte le pagano.

Non ci sono più alibi tecnici, è solo più un problema di volontà politica.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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