Enrico Miletto, autore di “Novecento di confine – L’Istria, le foibe, l’esodo”, fresco di stampa per i tipi di  Franco Angeli editore, è un giovane ricercatore dell’Università di Torino, specialista, almeno stando ai libri fin qui pubblicati, di storia del nostro confine orientale, con i quali, dal primo “Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Torino” del 2005 , a “Gli italiani di Tito. La Zona B del Territorio Libero di Trieste e l’emigrazione comunista in Jugoslavia 1947-1954”, del 2019,  a quest’ultimo di cui parliamo, ha dato mostra della sua serietà per il grande equilibrio che caratterizza la materia, spesso oggetto di strumentalizzazioni, di manipolazioni pregiudiziali e ideologiche, che gettano confusione su una pagina di storia nazionale, della quale la popolazione istriana, nelle sue diverse componenti etniche (italiana, croata e slovena) è stata sempre, segnatamente, vittima. 

La croata e la slovena vittime prima del fascismo, nella sua accezione peggiore, il cosiddetto fascismo di confine, che ha imposto la chiusura delle scuole, appunto, croate e slovene, il divieto di parlare le loro lingue nei luoghi pubblici, così come ai preti di dire le omelie in chiesa, il tutto accompagnato da una repressione che avrebbe portato a un esodo di 105mila slavi, ma anche, dopo il 1945, quando i comunisti titini attuarono “la presa del potere procedendo all’eliminazione di massa di nemici e avversari politici” ovvero “i membri delle forze collaborazioniste e cioè i cetnici (serbi n.d.r), gli ustascia (croati n.d.r.) e i domobranci (sloveni, n.d.r.)”; la popolazione italiana, a sua volta, immediatamente dopo l’8 settembre 1943, quando la situazione politica, nella confusione del momento seguita alla firma dell’armistizio, diede spazio anche a vendette personali, rancori, soddisfazioni a invidie covate a lungo, insomma a miserie umane, portando a un primo infoibamento di persone che Miletto quantifica tra le 500 e le 700, alle quali seguirono dopo la primavera del 1945, in pieno tempo di pace, un numero di vittime compreso in una forbice tra le 3000 e le 4000 persone, nel corso di una stagione di violenza dovuta non all’ostilità anti-italiana, quanto invece a una presa di possesso rivoluzionaria del territorio, che prevedeva l’eliminazione di quanti potessero rappresentare un potenziale o effettivo ostacolo alle strategie jugoslave” ovvero l’eliminazione di quanti, nemici o alleati, se non addirittura compagni, che fossero, “potessero opporsi all’annessione della Venezia-Giulia alla Jugoslavia”. 

Miletto, in questo senso, esula dalla banale lettura meccanicista che giustifica le violenze jugoslave contro gli italiani in Istria e a Fiume come reazione all’offensiva nel 1941-42 da parte dell’esercito mandato da Roma, composto da italiani provenienti da tutte le province della penisola, che avrebbe portato alla dura occupazione in armi delle regioni già jugoslave, cioè di quella fascia che “estendendosi da Fiume a Lubiana, comprendeva il Montenegro (divenuto protettorato militare), il Kosovo e la Macedonia (annessi all’Albania già occupata nell’aprile 1939)” e della  “Slovenia centro-meridionale, che assunse la denominazione di provincia di Lubiana”,  a cui la Venezia Giulia con l’Istria e Fiume, già italiane, erano del tutto estranee.

Certo, in alcune occasioni, anche in Istria e a Fiume non era esclusa “una sorta di resa dei conti come conseguenza del fascismo (…) di conti aperti con la guerra”, ma il fatto determinante, la causa prima se non assoluta, che, come si è visto, ha portato a un notevole maggior numero di vittime anche rispetto alla prima ventata del settembre-ottobre 1943,  fu che “nella loro maggioranza, gli italiani si dimostrarono profondamente contrari al nuovo potere jugoslavo” per cui “le violenze avevano quindi un duplice intento: decapitare la popolazione italiana della sua classe dirigente, in larghissima misura favorevole al mantenimento della sovranità italiana sulla Venezia.Giulia e, nel contempo, intimidire l’intera comunità affinché non si opponesse al progetto annessionistico”.  

La conseguenza, delle violenze jugoslave, fu l’esodo, questa volta di 300mila italiani. Già prima nella Zona B – la cui semplice amministrazione, non ancora l’annessione, fu affidata dai vincitori della seconda guerra mondiale alla Jugoslavia – l’intervento jugoslavo fu tanto pesante da incidere sulla vita degli italiani in maniera tutt’altro che all’insegna di quella “fratellanza e unità” che era lo slogan del regime, ma ancor più quanto dopo avvenne rappresentò uno iato col passato atavico di quella gente, di quelle terre. 

“Riorganizzazione amministrativa” scrive Miletto “requisizioni, confische e collettivizzazione procedettero di pari passo con interventi attuati sul piano culturale, linguistico identitario che ebbero come bersaglio la popolazione italiana soggetta, nell’arco di tempo che scandì la definizione delle vicende confinarie, a un progressivo, quanto sostanziale, processo di esclusione e indebolimento. La jugoslavizzazione dei cognomi, il mutamento della toponomastica stradale, la cancellazione del bilinguismo visivo, l’imposizione della lingua slovena e croata nello spazio pubblico, la drastica riduzione delle scuole italiane rappresentarono i principali aspetti di una prassi di snazionalizzazione che investì la comunità italiana, colpendone anche i principali punti di riferimento come gli insegnanti, costretti ad abbandonare il territorio, e il clero”. Si aggiunga poi che “lacerando in maniera consistente il tessuto demografico dell’intera regione che, nel frattempo, aveva visto arrivare nel medesimo periodo, 144.500 nuove presenze dalla Serbia, dalla Bosnia e dalle altre aree interne del paese in seguito a politiche migratorie avviate dal governo jugoslavo dopo le partenze degli italiani”, avrebbe sempre più cacciato in una condizione di estraneità gli italiani  rimasti, nel frattempo divenuti minoranza.

Ed è quanto mai avvilente che tutto ciò sia stato attuato non da una forza nazionalista e razzista come quella fascista, ma da una che si presentava alla ribalta come portatore di un nuovo mondo.  

Uno schema che si sarebbe ripetuto in tutti i paesi dell’Est europeo dove il totalitarismo comunista si sarebbe affermato, creando una massa di persone in fuga dai loro paesi d’origine che avrebbero portato alla creazione di organizzazioni come l’International Refugee Organization (Iro) che si trovò complessivamente “a gestire circa 1.620.000 refugees, 795mila dei quali distribuiti in oltre un centinaio di campi tra Germania occidentale,  Austria e Italia”. Tra questi, dei 300mila esuli giuliano-dalmati, 230mila furono sistemati in 109 campi profughi sparsi per la penisola, mentre i restanti 70mila troveranno sistemazione negli Stati Uniti, in Canada, in Brasile, in Sudafrica e in Australia.  Comunità ancora presenti e attive, oltre che con circoli e giornali, anche con case editrici dedicate, com’è, ad esempio l’“Arpa d’or”,  a Toronto in Canada, che prende spunto dai versi del Nabucco verdiano “Arpa d’or dei fatidici vati/perché muta dal salice pendi?/ Le memorie nel petto riaccendi/cui favella d’un tempo che fu”

Diego Zandel 

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