Destino dei Capi di Stato e di Governo e, in generale, di qualunque uomo di potere è sempre stato quello di essere esposti ad attentati alla loro vita, messi in atto da avversari per motivi politici, economici, ideologici o religiosi e assai spesso non sortiscono l’esito auspicato e le vittime designate sopravvivono.  Numerosi sono, nella Storia, gli attentati riusciti che hanno causato la morte di personaggi famosi, da quello del Faraone Segeneura Ta’o (1555 a.C.) a quello del Presidente dell’Ucraina ViktorYushchenko (2004) e, fra quelli che scamparono, spiccano per l’importanza che ebbero nella-Storia italiana (e non solo) del XX secolo, gli attentati di cui fu oggetto Benito Mussolini in quanto, se fossero riusciti, l’avrebbero indirizzata in modo assai meno drammatico.

Benito Mussolini subì cinque attentati tra il 1924 e il 1932.  Il primo avvenne nell’autunno 1924, organizzato da una associazione monarchico-massonica (Obbedienza di Palazzo Giustiniani, Gran Maestro Domizio Torregiani) sovversiva, chiamata “Amici del popolo”, alla quale appartenevano noti antifascisti, anarchici, socialisti e comunisti, fra i quali il generale Bentivegna, gli onorevoli Misuri e Zaniboni, Ricciotti e Peppino Garibaldi, Massimo Rocca e i fratelli Umberto e Riccardo Bellini. E fu quest’ultimo a ordire l’attentato coinvolgendo nel progetto il muratore Luigi Celli, incaricandolo di procurare una certa quantità di acido prussico che sarebbe servito ad avvelenare una bevanda destinata a Mussolini. Il progetto avrebbe dovuto realizzarsi in concomitanza di una insurrezione generale sostenuta da Filippo Turati, Emanuele Modigliani ed Emilio Lussu, che però non ebbe mai luogo. La bevanda avvelenata sarebbe stata offerta al Duce, nel corso di un tête-à-tête galante, dalla Contessa Martini (Martin de Viry) divenuta sua amante grazie all’amica contessa Noli da Costa, ben introdotta nell’entourage privato di Mussolini. La contessa Martini aveva aderito al complotto a fronte della fornitura di una grossa somma che le sarebbe servita a saldare i debiti che suo marito, ex ufficiale della guardia impiegato al porto di Genova, aveva contratto per procurarsi la cocaina di cui era schiavo. Il complotto fallì perchè Celli aveva fornito alla contessa una polverina innocua di poco valore al posto del costoso acido prussico che gli era stato richiesto, intascando la cospicua somma versatagli per tale acquisto, ed essa, accortasi della truffa, comunicò che non avrebbe potuto condurre a termine l’operazione. La congiura all’epoca non venne scoperta e gli “Amici del popolo” non furono individuati.

Tito ZANIBONI, massone, ex deputato socialista del PSU, tenente colonnello Alpini nella Grande guerra, decorato con 3 medaglie d’argento e una di bronzo, non si dette per vinto e, il 4 novembre 1925, attentò da solo alla vita del Duce. In quel giorno, in cui si commemorava per la settima volta la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale, era previsto a Roma un discorso del Duce, alle ore 11, in piazza Colonna, dal balcone di Palazzo Chigi.  Zaniboni alle 8 della stessa mattina, dopo aver lasciato la sua auto nella vicina Piazza San Claudio (per proteggersi la fuga dopo l’attentato), si presentò in alta uniforme da maggiore degli alpini alla “concergie” dell’albergo Dragoni, in compagnia di un giovane dipendente, Carlo Quaglia, qualificandosi come Domenico Silvestrini, e richiese la camera n. 90 che Quaglia già aveva prenotato per lui due giorni prima. L’albergo e la camera erano stati scelti perchè dalla finestra di quella camera si aveva una perfetta visuale sul balcone di Palazzo Chigi al quale avrebbe dovuto affacciarsi il Duce. Zaniboni aveva portato con sé in una valigia un fucile di precisione di costruzione austriaca e l’aveva nascosto in un armadio della camera in attesa di usarlo alle ore 11. Alle 9 irruppe nella stanza il vice questore di Roma, Enrico Belloni, con un drappello di carabinieri e, trovato il fucile, arrestò Zaniboni. L’operazione era stata resa possibile dalla delazione del Quaglia che era, sotto copertura, un informatore della polizia fascista e che aveva anche indicato al vice questore il posto ove era parcheggiata l’auto dell’attentatore. Lo stesso Quaglia denunciò, come complice nella preparazione dell’attentato, il generale in pensione Luigi Capello che venne parimenti arrestato. Nel successivo processo vennero entrambi condannati – per alto tradimento – a reclusione rispettivamente a 30 e 25 anni, graziati tuttavia dopo che ne avevano scontati nove. La grazia fu loro concessa poiché Mussolini si era fatto persuaso che l’attentato fosse stato ordito dalla frangia oltranzista intransigente del suo stesso Partito fascista (composta da Farinacci, Balbo e Federzoni) contraria alla sua politica normalizzatrice, più che da massoni filomonarchici.

Circa un anno dopo fallì anche il terzo attentato al Duce che era stato progettato da una donna irlandese, Violet GIBSON, figlia di Edward, Lord Cancelliere d’Irlanda, pare su indicazione dell’on. duca Giovanni Antonio Colonna, leader dei deputati antifascisti aventiniani e del gruppo “Democrazia sociale” e con l’appoggio della Società Teosofica indipendente che l’aveva invitata a Roma allo scopo di uccidere Mussolini. Partita da Dublino ai primi di aprile 1926, giunta a Roma il giorno 7, armata di pistola fornitale dal duca, si nascose tra la folla che, in piazza Campidoglio, attendeva il Duce all’uscita dall’omonimo palazzo ove aveva tenuto la prolusione al Congresso internazionale di chirurgia. Appena Mussolini apparve, la Gibson gli sparò ma una improvvisa elevazione del suo braccio esteso nel saluto romano, fece sì che la pallottola gli sfiorasse soltanto il naso, producendogli una lieve ferita. Prontamente soccorso dai chirurghi presenti, Mussolini continuò il suo cammino e la sua guardia del corpo catturò l’attentatrice. Arrestata, processata dal Tribunale speciale fascista, venne giudicata in stato di “paranoia cronica” (era emerso che in gioventù aveva già tentato di uccidere una compagna con un coltello e che aveva anche tentato il suicidio) e assolta in istruttoria. Venne rinchiusa in una clinica psichiatrica ove rimase sette mesi sino a che, ottenuto il perdono dal Duce che intendeva evitare incidenti diplomatici con l’Irlanda a causa della posizione del padre, venne estradata nel suo paese d’origine ove fu ricoverata nella clinica psichiatrica St.Andrew di Northmpton. Il duca Colonna e i suoi amici della Società teosofica non vennero coinvolti processo e rimasero solo all’attenzione della O.V.R.A. (Organizzazione per la Vigilanza dell’Opposizione e dell’Antifascismo).

Gino LUCETTI, marmista anarchico antifascista, era stato autore, a Carrara, sua città natale, negli anni Venti, di alcuni scontri con fascisti, in seguito ai quali fu costretto a riparare a Marsiglia in Francia. Nel settembre 1926, all’età di 26 anni, rientrò in Italia sotto il falso nome di Ermete Giovannini e, deciso ad uccidere Mussolini, prese contatto con frange anarchiche romane e, con la loro assistenza (Gino Bibbi suo cugino, Stefano Vatteroni e Leandro Sorio) il giorno 11 a Roma si nascose dietro un chiosco di giornali sito sul piazzale di Porta Pia, in attesa che – secondo  il suo  solito –  vi giungesse il Duce a bordo della sua auto Lancia Lamda coupè, proveniente dalla sua residenza di Villa Torlonia e diretto a Palazzo Chigi. Non appena vide l’auto, Lucetti gli scagliò contro una bomba SIPE che gli avevano procurato e che rimbalza sul tetto dell’auto e scoppiò a terra provocando il ferimento di otto persone, mentre Mussolini rimase illeso. Lucetti fu subito individuato e portato da due carabinieri nel portone della Banca Commerciale di via XX settembre e trovato in possesso di una pistola e di un caricatore di pallottole dum-dum (rivelatesi poi esser state immerse in precedenza in acido prussico per incrementarne l’effetto letale). Portato nella sede della Questura in piazza Collegio romano, fu arrestato e processato l’11 giugno dell’anno dopo insieme a Vatteroni e Sorio, cui gli inquirenti erano risaliti dopo la cattura. Furono tutti condannati, Lucetti a 30 anni di reclusione, Vatteroni a 18 e Sorio a 20. Lucetti fu rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma e poi trasferito in quello di Portolongone all’isola d’Elba e quindi a Fossombrone (Pesaro) e infine all’isola di S.Stefano. Fu liberato dagli Alleati sbarcati a Salerno nel settembre 1943.

L’ultimo attentato fu messo in atto da un ragazzo di 15 anni, Anteo ZAMBONi, probabilmente su istigazione di suo padre Mammolo e dei fratelli Assunto e Ludovico, anarchici antifascisti, nella cui tipografia lavorava come fattorino a Bologna. Il 31 ottobre 1926, nascosto tra la folla che attendeva il passaggio di Mussolini reduce dall’aver inaugurato lo Stadio del Littorio, allorché egli giunse, in piedi sulla sua auto Alfa Romeo, in via Indipendenza diretto alla stazione ferroviaria, gli sparò un colpo di pistola. La pallottola non raggiunse corpo di Mussolini poiché questi venne spostato da un carabiniere che aveva intravisto il braccio teso dell’attentatore, ma lacerò soltanto la sciarpa di Gran Cordone dell’Ordine mauriziano che indossava e si conficcò all’interno della portiera dell’auto, dopo aver sfiorato anche il podestà Umberto Ruffini seduto al suo fianco. Subito catturato, Anteo venne strangolato sul posto e colpito con 14 pugnalate e un colpo di pistola dagli squadristi presenti, alla guida di Leandro Arpinati, autista del Duce. Mammolo. Ludovico, Assunto e Virginia Tabazzoni (zia di Anteo) vennero arrestati, processati e condannati come mandanti, a 30 anni di reclusione Mammolo e Virginia e a 5 anni Ludovico e Assunto, e inviati al carcere dell’isola di Lipari: vennero poi graziati da Mussolini dopo sei anni e liberati.

Mussolini morì alfine ucciso da una raffica di mitra il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra (Como) da un commando partigiano.

Gustavo Ottolenghi

 

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